Fiorello, Luisa – Racconti teatrali

Col regista Gianni Salvo, suo marito, è stata l’anima del glorioso Piccolo Teatro di Catania. Una vera e propria oasi di intelligenza nello sconfinato deserto di creatività in cui da decenni vive il teatro della Città.

Rocambole Garufi

Luisa Fiorello

Racconti teatrali

Collana

Gli occhi di Barbara”

Per una storia della letteratura mediterranea contemporanea

Direttore: Salvatore Paolo Garufi

n. 2

Primo racconto teatrale

Posò il telefono e in quel momento stesso decise che doveva ucciderlo.

Non poteva continuare così.

Le aveva telefonato dalla casa della sua ultima amante, descrivendone le qualità fisiche e paragonandole con scherno alle sue.

Aveva ancora le chiavi dell’appartamento di lui; lei aveva dimenticato di restituirgliele e lui di chiedergliele.

Decise quindi di recarsi da lui, nascondersi nel ripostiglio ed aspettare che rincasasse e si addormentasse.

Si vestì in fretta; la bambina dormiva. Poteva lasciarla sola, una bambina di sette anni? Decise di sì, non si svegliava mai la notte e lei sarebbe tornata entro un paio d’ore.

Uscì di casa e si avviò verso la stazione della metropolitana. Scese alla stazione di Saint-Germain dès Près e si avviò verso rue Bonaparte.

Gli alberi del boulevard sbocciavano in tutta la loro bellezza e lei ripensò alle passeggiate con lui per i lungosenna, mano nella mano, nei primi tempi del suo arrivo a Parigi.

Per lui aveva lasciato il marito- d’altronde erano in crisi da parecchio tempo- e aveva affrontato l’avventura di trasferirsi a Parigi, portando con sè la bambina e iniziando una nuova vita con quell’uomo così bello, così colto, così raffinato, e così giovane.

La differenza di età- lui venticinque, lei trentacinque- non l’aveva mai spaventata.

Piccola, esile, due grandi occhi scuri in un viso dai bei lineamenti, sembrava una ragazzina. Talmente esile che spesso la paragonavano a Twiggy, la famosa modella inglese.

Era una sognatrice con poco senso pratico, abituata ad essere sempre considerata un po’ infantile, giustificata con indulgenza da tutti per i suoi comportamenti immaturi, ma che erano tutto sommato egoistici.

Era concentrata su stessa, logorata dal desiderio di dare alla sua vita una dimensione eccezionale, fuori dagli schemi e dai comportamenti usuali.

Con lui si erano conosciuti ad una conferenza su Flaubert: lui era lettore di Francese all’Università e lei un’attrice che di tanto in tanto era invitata a leggere poesie e brani di prosa in conferenze e convegni.

Lui si era complimentato per la sua voce e la sua dizione e lei era rimasta incantata dall’accento parigino del suo italiano, molto corretto, quasi letterario.

La sua partecipazione come attrice in una piccola compagnia d’avanguardia della sua città l’aveva messa in contatto con un mondo fatto di personaggi eccezionali, di donne dai grandi e tragici destini: sognava di interpretare Antigone nei teatri greci o il ruolo di Nora in “Casa di bambola” nei grandi teatri delle capitali.

Quel mondo fittizio l’aveva resa insofferente della vita quotidiana familiare che le toccava vivere; il marito era un impiegato alle Poste: un brav’uomo simpatico, allegro, divertente che l’adorava, ma lontanissimo dai suoi sogni e dalle sue aspettative.

La nascita della bambina non aveva cambiato granchè; certo le voleva bene, ma preferiva che altri l’accudissero risparmiandole fastidiosi pannolini e biberon.

D’altronde il marito stravedeva per la piccola e se ne occupava a tempo pieno.

Quando conobbe il giovane francese era già ad un punto di rottura con la sua vita di sempre; era pronta per qualcosa di diverso, di nuovo, di eccitante.

Lui le parlava di Flaubert, le svelava che esistevano due versioni dell’Education sentimental e lei si sentiva arricchita culturalmente standogli vicino.

Iniziarono una relazione e quando il giovane ebbe concluso il suo contratto con l’Università e deciso di rientrare a Parigi, proponendole di seguirlo, le sembrò di toccare il cielo con un dito. Ecco la sua occasione, ecco la svolta definitiva della sua vita: Parigi, la grande capitale, crogiolo di culture, un mondo nuovo , diverso dalla soffocante città di provincia nella quale era vissuta fino a quel momento.

Si sentiva esattamente come il grande personaggio creato da Flaubert e come lui diceva di sé sorridendo : “ Madame Bovary, c’est moi!”

Stranamente decise di portare con sé la bambina; era già grandicella, abbastanza autonoma e uno strano sentimento mai avvertito prima- un inizio di amore materno?- le faceva capire che la bambina le sarebbe mancata. Quindi, con un ulteriore atto d’egoismo, decise di portarla con sé, riuscendo a convincere il paziente marito – dal quale si era di fatto separata da qualche tempo- che sarebbe stata via solo per qualche mese.

A volte, provava anche un po’ di rimorso pensando al marito: era sempre stato innamoratissimo di lei, l’aveva accontentata in tutto, cieco ai suoi difetti e alle sue smanie di una vita diversa. Poi pensava ad Emmma Bovary e si diceva sorridendo: “Ecco mio marito è proprio come il marito di Emma! Tanto buono, ma tanto noioso!”

All’inizio la sua vita a Parigi era stata stupenda: il giovane era molto affettuoso con lei e la bambina; le aveva accolte nel suo appartamento, piccolo ma al centro di Parigi, in rue Bonaparte; la portava spesso a teatro, ai concerti, le faceva conoscere persone interessanti: in quei casi la bambina restava a casa con una baby sitter.

Aveva iniziato a studiare il francese, sempre accarezzando il sogno di poter recitare a Parigi in una grande compagnia, lei che era stata tante volte applaudita e apprezzata nella sua città.

Passava la giornata studiando, leggendo, riordinando la casa- lei che non aveva mai lavato un piatto- e cucinando la sera per lui. Anche questa era una novità: lei mangiava pochissimo, a pranzo la bambina mangiava a scuola , lui restava all’università e rientrava la sera. E lei che aveva sempre odiato i fornelli, sperimentava ora nuove ricette, cercando di preparare invitanti cenette.

Ma come quasi sempre, in questi casi, il sogno cominciò a frantumarsi giorno per giorno: lo sentiva un po’ più distaccato, meno appassionato, fino al giorno in cui le propose di trasferirsi- lei e la bambina- in un appartamento nella banlieu di Parigi, perchè- le spiegò- aveva bisogno di maggiore spazio e libertà per alcuni contatti con gente del mondo universitario che poteva essergli utile per una definitiva sistemazione.

La cosa la sorprese dolorosamente: non sarebbe stato lo stesso vivere da sola, senza la sua presenza quotidiana, vedendolo come un ospite in visita.

E infatti dal quel giorno lo vide sempre più raramente; veniva a trovarla una o due volte la settimana, le dava i soldi contati per la spesa- con evidente, crescente fastidio- e lei sentiva che lo stava perdendo. Capiva anche che aveva altre donne- sicuramente giovani come lui- e quando andava a trovarla gli faceva scenate di gelosia che certamente non miglioravano la situazione e delle quali poi gli chiedeva perdono in lacrime con reiterate richieste di pace.

Fino a quel giorno in cui le aveva telefonato dicendole che in quel momento si trovava con una ragazza bellissima, che aveva dei seni stupendi- lei non se li sognava nemmeno -; aveva capito allora definitivamente che lui non la voleva più e che , vigliaccamente, faceva di tutto per umiliarla, disgustarla e staccarla da sé.

Fu presa da un furore cieco e decise di ucciderlo: non meritava altro.

Come l’avrebbe fatto? Non lo sapeva bene, l’avrebbe deciso sul momento.

Era già quasi sera e il cielo di Parigi di un azzurro intenso cominciava ad incupirsi trasformandosi nel nero mantello della notte.

Si fermò sul Pont Neuf e si affacciò a guardare le acque scure della Senna sulla quale scivolavano i bateaux-mouches carichi di turisti che si affannavano a fotografare quanto più potevano, dimenticando, nel farlo, di gustare con calma le bellezze che li circondavano.

Quanta gente si era buttata giù da quel ponte! Quanta disperazione aveva riempito il cuore di quei poveri disgraziati per indurli a commettere un gesto così disperato. Lei avrebbe potuto farlo? No, non ne aveva il coraggio. L’impatto con l’acqua fredda, il respiro sempre più faticoso, la lotta per emergere dalle onde che ti spingono giù, giù..l’inutile, tardivo pentimento di quel gesto! Rabbrividì al pensiero di tutto questo e si avviò verso la sua destinazione.

Arrivò a casa di lui, aprì la porta ed entrò nel piccolo atrio dal quale si accedeva da un lato al soggiorno e dall’altro alla camera da letto.

L’appartamento era silenzioso: si sentiva solo il ticchettìo dell’orologio a pendolo, che lui aveva ricevuto in eredità dal nonno.

Girò per la casa guardandosi intorno: ogni angolo le riportava alla mente un ricordo particolare, gioioso, felice.

Il piccolo tavolo da pranzo sul quale consumavano la cena e poi giocavano a carte, cercando di far partecipare e divertire la bambina; la grande poltrona soffice , comoda , sulla quale lui si sedeva con lei in braccio, le coccole che preludevano alle loro notti d’amore.. Si sedette su quella poltrona e finalmente pianse; pianse su stessa, sull’ingiustizia della sua vita che le rendeva odio in cambio dell’amore che lei aveva dato. Perchè lei aveva solo amato, non aveva fatto male a nessuno e tanto meno a lui: dunque, perchè le era capitato tutto questo? Perchè proprio a lei? Come tutte le persone egoiste- quando la vita le mette alla prova- si poneva questo interrogativo, “Perchè proprio a me?” Ma perchè no? Se capitasse ad un altro sarebbe meno ingiusto? Questa riflessione fece montare di nuovo in lei la rabbia e la determinazione di ucciderlo. Sarebbe stata finalmente libera, libera dall’ossessione di quell’uomo!

Aprì la porta del piccolo ripostiglio e gli occhi le si posarono su una cassetta di attrezzi aperta per terra: in primo piano vi era posato un grosso martello.

Lo guardò a lungo ipnotizzata: pensieri di violenza, di aggressione, di morte sfilarono nella sua mente. Poi tirò un lungo respiro, socchiuse la porta del ripostiglio, lasciando una fessura aperta, afferrò il martello e stringendolo convulsamente fra le braccia, si sedette per terra e attese.

Mentre aspettava raggomitolata per terra, le sfilarono davanti agli occhi della mente tutti i giorni della sua vita: l’infanzia serena in una famiglia modesta – il padre operaio, la madre casalinga- al limite della sopravvivenza; gli studi in un istituto tecnico- lei che amava l’arte, la poesia, il teatro- con il relativo diploma di ragioniera e nessuna esperienza pratica in quel genere di lavoro; gli impieghi saltuari e sempre frustranti – fatture, conti, datori di lavoro cafoni o prepotenti- e infine, unico momento appagante della sua vita, l’incontro con il giovane regista che l’aveva accolta nella sua compagnia, aveva capito le sue potenzialità artistiche e le aveva offerto la possibilità di recitare e di realizzare almeno in quei momenti sul palcoscenico i suoi sogni.

Così gli anni erano passati e anche il teatro era diventato per lei una routine; le mancavano i grandi teatri, il pubblico delle capitali, gli applausi per le sue interpretazioni da parte di grandi registi e grandi critici.

Per lei fare l’attrice significava soprattutto essere famosa e guadagnare tanti soldi e capiva che questo non le sarebbe più accaduto restando a vivere e a recitare in quella soffocante cittadina di provincia, dove i grandi attori e i grandi registi erano solo di passaggio e non andavano certo a vedere lei in quella piccola compagnia locale.

Il rumore della chiave che girava nella porta interruppe i suoi pensieri. Eccolo, era tornato! Il respiro le si fermò; rimase immobile continuando a stringere il martello fra le braccia. Si sentì il tintinnìo delle chiavi sul ripiano del tavolinetto dell’ingresso, quindi i passi di lui che si dirigevano verso il bagno. Sentì quasi subito scrosciare l’acqua della doccia, poi un ciabattare che dal bagno si dirigeva verso la camera da letto, poi più nulla.

Evidentemente era andato a letto. Il silenzio cadde di nuovo nell’appartamento.

Il cuore le batteva così forte che temette per un momento che il rumore lo svegliasse.

Attese ancora dieci minuti. Era tutta coperta di sudore e tremava come una foglia. Infine si fece forza e uscì dal ripostiglio. Si tolse le scarpe e in punta di piedi si avviò verso la camera da letto. La porta era socchiusa. Rimase ad ascoltare e sentì il respiro pesante dell’uomo che dormiva. Si infilò nella fessura della porta rimasta aperta- era così magra che poteva passare senza farla muovere e cigolare- e si avvicinò al letto.

Eccolo lì: era disteso, supino,con un braccio alzato sopra la testa e appoggiato al cuscino e respirava pesantemente.

Com’era giovane! E bello! I capelli castano chiaro si arricciavano alle tempie circondando un viso dai lineamenti regolari: il suo bel corpo snello si distendeva rilassato nel sonno.

Un peccato doverlo uccidere, ma solo così avrebbe avuto pace.

Per trovare la forza di alzare il braccio e vibrare il colpo, si impose di ricordare le telefonate di scherno che aveva ricevuto da lui negli ultimi tempi, il continuo paragonarla alle sue amanti, il costante desiderio di umiliarla per staccarla da sé .

La rabbia montò di nuovo in lei a quel pensiero. Alzò il braccio e vibrò il colpo, ma il tremito che la scuoteva tutta fece sì che il martello colpisse la fronte del giovane di striscio, ottenendo solo di farlo svegliare.

Aprì gli occhi con un sussulto e per pochi secondi rimase a guardarla intontito con l’inconsapevolezza del sonno appena spezzato, mentre lei, inorridita, lo guardava a bocca aperta, continuando a tremare.

Quando mise a fuoco il suo viso e osservò sbalordito il martello che lei impugnava ancora, balzò dal letto e afferrò con una mano di ferro il polso sottile di lei, stringendolo finchè non lasciò cadere il martello.

Volevi uccidermi? Sei pazza, sei pazza!L’ho sempre saputo che eri pazza!..

Sei tu che l’hai voluto…tu!

Il giovane continuando a stringerle il braccio in una morsa, la trascinò con sé verso il telefono che si trovava sulla scrivania e digitò il numero del pronto intervento della polizia.

Una donna ha cercato di uccidermi. Venite subito. Sono riuscito ad immobilizzarla. Sono al 15 di rue Bonaparte.

La strattonò ancora fino ad una sedia e ve la gettò sopra. Lei si accasciò come un sacco vuoto, continuando a tremare.

Pochi minuti dopo la polizia era arrivata; due agenti alti e robusti guardarono meravigliati la donna esile e pallida accasciata sulla sedia .

Voleva uccidermi: guardate, questo è il martello con cui ha vibrato il colpo sulla mia testa, mentre dormivo. Vedete questo livido sulla tempia?

I poliziotti guardarono il piccolo livido, poi il giovane alto e robusto, quindi la donna fragile e tremante sulla sedia e sorrisero.

Una lite fra innamorati?

Neanche per sogno. E’ una pazza! Dovete rinchiuderla in un manicomio criminale.

Non pensa- disse uno dei poliziotti- che dopo esservi calmati entrambi, guardi la signora come sta tremando, potreste chiarire tutto e far finta che non sia successo niente?

Successo niente? Ha cercato di uccidermi, vi dico! Non avete sentito? Dovete fare il vostro dovere. Arrestarla e rinchiuderla in manicomio. E’ completamente pazza!

La sua dunque è una denuncia formale?

Certo, volete che la metta per iscritto?

Non adesso. Verrà domani mattina a firmare una dichiarazione.

I due poliziotti a malincuore si avvicinarono alla donna e la presero entrambi per un braccio delicatamente, tirandola su con cautela e quasi compassione.

Guardarono di nuovo il giovane:

E’ proprio sicuro?

Sicurissimo!

Andiamo signora, venga.

Lei cominciò a camminare quasi trascinata dai due poliziotti. Ad un tratto un pensiero le balenò in mente.

La bambina- disse- cosa ne sarà della mia bambina?

Una bambina? C’è una bambina in casa?

No, è nel mio appartamento. E’ rimasta sola; devo andare a prenderla.

I poliziotti si fecero subito più severi. C’era un minore di mezzo e per giunta lasciato solo di notte: la faccenda era più grave di quanto non sembrasse a prima vista.

Quanti anni ha la bambina?

Sette anni.

E lei ha lasciato sola di notte una bambina di sette anni. Andiamo. Ci dica dove si trova.

La fecero salire in macchina e si recarono al suo indirizzo. Entrarono in casa ed entrarono con lei nella camera dove dormiva la bambina. Accesero la luce e la piccola si svegliò. Sgranò i grandi occhi grigi, guardando sbalordita i due uomini sconosciuti, poi sfregandosi gli occhi si rivolse alla madre:

Chi sono questi uomini, mammina?

Lei non rispose; solo allora, guardando la figlia, ancora insonnacchiata, si rese conto dell’enormità delle sue azioni. E ora? Cosa ne sarebbe stato di lei? Guardò disperata i poliziotti.

Uno dei due – aveva anche lui una bambina e cominciava a pensare che quella donna fosse davvero pazza- le si rivolse bruscamente:

La bambina non può restare qui da sola né venire con lei. Dov’è il padre?

In Italia.

Non ha un’amica che possa tenerla finchè non arriva il padre?

Lei cercò di pensare a chi poteva rivolgersi. Le sembrava di avere la testa imbottita di bambagia: i pensieri nascevano e svanivano subito dopo.

Cercò di ricordare il nome di qualche amichetta della figlia e si ricordò della piccola Alessandra, compagna di banco della bambina, e della madre di lei, una signora italiana molto gentile che aveva conosciuto quando aveva accompagnato la figlia alla festa di compleanno di Alessandra. Sì, aveva l’indirizzo e il telefono. Poteva chiamarla, ma era tardi: erano le due di notte.

Non importa- dissero i poliziotti- la chiameremo noi e la pregheremo di tenere la bambina fino all’arrivo del padre.

La piccola non diceva niente; era abituata ai mutamenti della sua vita; agli umori di sua madre, raramente allegra, ma più spesso triste, depressa, quasi sempre distratta nei suoi confronti. Non aveva capito perchè aveva dovuto lasciare il padre che le voleva tanto bene e seguire la madre in quella grande città sconosciuta, dove tutti parlavano una lingua che lei non capiva. Poi a poco a poco si era abituata; a scuola- una delle tante scuole italiane all’estero- aveva fatto amicizia con Alessandra ed era andata qualche volta a casa sua e aveva guardato con ammirazione le attenzioni della madre verso la figlia, le coccole, le risate, l’allegria che regnava in quella casa.

Era contenta di andare da Alessandra; da lei si sentiva più al sicuro che con sua madre.

La mamma di Alessandra fu gentilissima; nonostante l’ora, accolse la bambina con un bel sorriso stringendola piano a sé e dicendole: “Vai a dormire nel letto di Alessandra. Tu sai dov’è”. Poi assicurò ai poliziotti che avrebbe avuto cura della piccola fino all’arrivo del padre.

Sistemata la bambina, i poliziotti portarono la donna al commissariato e la tennero per quella notte in una cella.

La mattina seguente telefonarono al marito in Italia, il quale si precipitò subito a Parigi insieme con la sorella di lei.

Quest’ultima- una donna concreta, sposata ad un ingegnere, non era stata mai molto tenera nei confronti della sorella, tanto diversa da lei. Aveva sempre considerato con sprezzante indulgenza la sua attività di attrice , considerandola un hobby e disapprovando il suo modo di vivere.

Questo non le impedì tuttavia di correre in suo aiuto.

Nel frattempo la donna era stata trasferita al manicomio criminale e, poiché era andata in escandescenze quando l’avevano messa in una stretta stanza senza finestre, arredata soltanto con una branda , un comodino e una sedia, le avevano messo la camicia di forza e le avevano somministrato un calmante.

Rimase lì istupidita e immobile chiedendosi come la sua vita fosse giunta a tanto. Cosa aveva fatto di male per meritarsi tutto questo? Certo, aveva cercato di uccidere il suo amante, ma non se lo meritava? Come aveva potuto trattarla in quel modo?

I suoi pensieri erano pieni di compassione per se stessa. Sarebbero riusciti suo marito e sua sorella a tirarla fuori di lì?

Rivide la casa dove era vissuta con il marito, i giorni monotoni ma sereni, le sue battute sempre piuttosto scontate, tipiche di un uomo semplice, senza grandi ambizioni. Forse era quella la vita giusta? Forse doveva accontentarsi di quella serena monotonia, ravvivata di tanto in tanto dalle prove in teatro, dai debutti, dall’ansiosa ricerca sul giornale locale del suo nome nelle recensioni di giornalisti più o meno competenti. E la sua bambina? L’aveva trascurata, non era stata mai particolarmente affettuosa con lei, non aveva badato alle sue esigenze , alle sue piccole necessità, non le era stata mai veramente vicina. Pensò che se fosse riuscita ad andar via da quel posto, si sarebbe sforzata di riprendere quella vita tranquilla, addirittura forse sarebbe tornata con il marito, il quale – lei ne era convinta- non aspettava altro.

Dopo alcune ore, vedendola tranquilla, le tolsero la camicia di forza e le permisero di recarsi nella sala comune dell’ospedale psichiatrico.

Lì l’aspettava una visione orribile. Una ventina di donne stavano sedute attorno a dei tavoli, giocando a carte o chiacchierando e quando si voltarono a guardare la nuova arrivata, lei sentì su di sé occhi ostili, gelidi. Una di loro si alzò e le si avvicino sorridendo, molto vicina al suo viso, poi, prima che lei potesse muoversi, le appioppò uno schiaffo violentissimo in piena faccia; quindi andò di nuovo a sedersi al suo tavolo, mentre le altre ridevano sgangheratamente.

Lei rimase immobile, sconvolta; non le era mai successo di essere colpita: la sensazione che provava era indescrivibile; era un misto di stupore, rabbia, umiliazione, dolore, senso dell’ingiustizia. Perchè? Perchè quella donna l’aveva colpita? Lei non le aveva fatto niente. Scoppiò a piangere correndo fuori dalla stanza e cercando l’infermiera, che nel frattempo era accorsa.

Non voglio stare con le altre,vi prego. Lasciatemi nella mia stanza. Voglio stare da sola.

Pensi di essere in albergo? Di poter fare quello che vuoi? Devi stare alle regole come tutte le altre.

Lei allora cominciò a gridare e a battere i pugni sull’infermiera, pensando che così forse l’avrebbero di nuovo rinchiusa nella sua stanza. Era preferibile la camicia di forza a quella compagnia orribile. E così fu. Le rimisero la camicia di forza e la riportarono nella sua stanza.

Nel frattempo il marito e la sorella erano arrivati e recatisi al commissariato, si erano incontrati con il giovane accusatore che era lì per stendere una formale denuncia.

Gli parlarono a lungo e lo convinsero a ritirarla . Quindi mentre il padre della bambina andava a riprendere la sua piccola dall’amichetta, la sorella si recò al manicomio dove le avevano detto che era stata rinchiusa la sorella.

Lì aspettò circa un’ora, guardando inorridita attorno a sè. Come aveva potuto ridursi così sua sorella? E per un uomo poi! Lei che non aveva molta stima del genere maschile- il marito gliene faceva vedere delle belle, ma lei era quel tipo di donna che, per amore dei figli e della famiglia, cercava di sopportare- non riusciva a concepire questi sentimenti estremi che portano ad azioni incontrollabili, fuori da ogni razionalità.

La sorella era sempre stata strana, piena di idee grandiose, fuori dalla realtà; anche un po’ viziata, bisogna dire, perchè aveva sempre avuto qualcuno che aveva provveduto a lei: prima suo padre, poi il marito- povero ragazzo quante gliene aveva fatte vedere!- poi l’amante francese e adesso lei che aveva dovuto sbattersi a Parigi per toglierla dai pasticci. Sbuffò impaziente guardando l’orologio: quanto doveva aspettare ancora?

Finalmente le permisero di recarsi nella stanza della sorella, alla quale nel frattempo avevano tolto la camicia di forza. La trovò seduta sulla sedia come un mucchietto di stracci . Una grande compassione la invase e lei, che non era stata mai molto espansiva, la prese fra le braccia e la strinse a sé.

Non preoccuparti. E’ tutto finito. Torniamo in Italia.

Lei non disse niente; si lasciò abbracciare restando inerte e passiva. La sorella l’aiutò a vestirsi, a mettere nel borsone le poche cose che aveva portato dall’appartamento quando i poliziotti ve l’avevano accompagnata, e finalmente uscirono. Raggiunsero con un tassì l’aeroporto dove li aspettava il marito con la bambina e tornarono in Italia.

Qui non riuscì a riprendere la vita di prima. Restava ore intere a letto, abulica, alzandosi solo per mangiare qualcosa; continuava a pensare a ciò che le era successo e si diceva “ E’ una storia tragica, la mia. Ecco, si potrebbe scrivere un dramma su questa mia vicenda. E io la reciterei da protagonista.” Ma poi rideva di se stessa e capiva che la storia doveva avere un altro finale se voleva diventare un vero dramma. Cominciò a pensare e a ripensare e finalmente ebbe tutto chiaro.

Si alzò, si lavò, si vestì, mangiò qualcosa, quindi chiamò un taxi e si recò all’aeroporto. Qui prese il primo volo per Roma, quindi un altro per Parigi. Dall’aeroporto si recò con un altro taxi all’Ile de la Cité, nel punto in cui si congiunge con l’Ile Saint-Louis: quello era uno dei posti romantici di Parigi che lei adorava e nel quale si era recata spesso con il giovane amante nei primi tempi del suo arrivo a Parigi. Un piccolo giardino fioriva in quell’angolo e in quel periodo dell’anno era tutto pieno di rose, giacinti e fresie che emanavano un profumo dolcissimo. Era tutto così bello in quell’angolo di Parigi: come avrebbe trovato il coraggio di fare quello che aveva deciso di fare?

Dal quai scese per la scaletta che portava alla banchina sul fiume. Sotto l’arco del ponte c’era un uomo seduto su una coperta con accanto un cagnetto dall’aria sparuta. Il barbone aveva in mano una radiolina che teneva come si tiene un oggetto prezioso e dalla quale usciva il suono di una canzone.

Lei si fermò a guardarlo. Lui le sorrise:

– Bella canzone, vero? E che stupenda giornata! Fai una passeggiata?

Si, una passeggiata.

E non ce l’hai l’innamorato? Sul fiume bisogna passeggiare con l’innamorato.

No, non ce l’ho.

Coraggio, vedrai che lo troverai presto. Sei così carina! Anche se forse non sei più molto giovane. E’ vero?

Si, è vero. Non sono più molto giovane.

Lei gli sorrise e si allontanò. Pensare che un uomo come quello, un barbone, un reietto della società, aveva cercato di consolarla, di darle una speranza. Da dove attingeva tanta forza e tanta serenità? Avrebbe voluto chiederglielo per trovarne un po’ anche lei.

Intanto il cielo si era completamente scurito e sul ponte brillavano le luci dei lampioni, mentre un suono di risate giungeva di tanto in tanto , laggiù , in quell’angolo appartato sulle rive del fiume.

Continuò a camminare sulla banchina finchè fu lontana dal barbone. Adesso il punto in cui si trovava era il più solitario e silenzioso.

Aveva preso la sua decisione: per dare un senso alla sua vita e per essere coerente con i suoi sogni, la sua morte sarebbe stata come quella di un personaggio tragico, come Ofelia, annegata nelle acque del fiume.

Recitò il brano in cui Gertrude racconta la morte di Ofelia:

C’è un salice che cresce di traverso a un ruscello e specchia le sue foglie nella vitrea corrente; qui ella venne, il capo adorno di strane ghirlande di ranuncoli, ortiche, margherite e di quei lunghi fiori color porpora che i licenziosi poeti bucolici designano con più corrivo nome
ma che le nostre ritrose fanciulle chiaman “dita di morto”; ella lassù, mentre si arrampicava per appendere l’erboree sue ghirlande ai rami penduli, un ramo, invidioso, s’è spezzato e gli erbosi trofei ed ella stessasono caduti nel piangente fiume. Le sue vesti, gonfiandosi sull’acqua,
l’han sostenuta per un poco a galla, nel mentre ch’ella, come una sirena, cantava spunti d’antiche canzoni, come incosciente della sua sciagura o come una creatura d’altro regno e familiare con quell’elemento. Ma non per molto, perché le sue vesti appesantite dall’acqua assorbita, trascinaron la misera dal letto del suo canto a una fangosa morte. »

“Mi mancano le ghirlande di ranuncoli, ortiche e margherite- pensò ironicamente- ma anch’io galleggerò sulle acque del fiume a conclusione di un destino tragico”.

Si lasciò scivolare nell’acqua.

Due giorni dopo fu ritrovato il suo cadavere, gonfio e irriconoscibile.

Secondo racconto teatrale

Era sempre stata diffidente nei confronti del prossimo: per lei tutta la gente si comportava in un modo che non approvava, e non solo i conoscenti, gli amici, ma anche i figli, soprattutto i figli. Non parliamo poi delle nuore: quelle non facevano nulla che le andasse a genio, soprattutto la moglie del figlio maggiore, più anziana di lui e divorziata. Inconcepibile per una donna come lei che si credeva profondamente religiosa, ma per la quale la religione si riduceva ad una serie di pratiche bigotte, retaggio di un’educazione convenzionale.

Quando era ancora valida e poteva muoversi per casa, passava quasi tutta la giornata dietro i vetri del balcone che dava sulla strada, guardando avidamente i movimenti dei vicini per un’insaziabile curiosità delle vicende altrui.

Tutto questo soprattutto da quando era morto il marito ed era più libera dalle incombenze domestiche.

Suo marito! A volte si soffermava a pensare all’incredibile cambiamento di quell’uomo da quando lo aveva conosciuto a quando era diventato un marito prepotente e intrattabile.

Sorrideva pensando a come si erano conosciuti. Lei aveva diciotto anni ed era proprio carina: piccola, minuta, con lunghi capelli neri, grandi occhi scuri dalle lunghe ciglia e un visino da bambola.

Lui abitava nel quartiere: era un giovane di media statura, snello, bruno, dal viso affilato, dall’andatura svelta ed elegante. Lei si era accorta di come la guardava quando si incontravano per strada, ma per lui era impossibile rivolgerle la parola perché, essendo figlia unica, il padre, gelosissimo, non le permetteva di uscire da sola.

Un giorno vennero in visita a casa della ragazza due cugine, giovani come lei, in compagnia di un’amica che presentarono alla famiglia come un’ex compagna di scuola. La ragazza, guardando l’amica delle cugine, ebbe l’impressione di averla già vista, ma non riusciva a ricordare dove.

Dopo un po’, approfittando del fatto che i genitori della ragazza erano in cucina, le due cugine con una scusa li raggiunsero, lasciando sola la cugina con la loro amica.

E fu a questo punto che si svelò il mistero: l’amica delle cugine non era altro che il giovane che la guardava per strada, il quale per poterle parlare, si era travestito da donna e con la complicità delle cugine, sue amiche, era riuscito a penetrare in casa della sua bella. La ragazza rimase stupita da tanta audacia e molto compiaciuta .

Colpita anche dalla passione che leggeva negli occhi del giovane, riflettè un momento e poi, come doveva fare una brava ragazza di quegli anni- erano gli anni venti- rispose che se i suoi genitori erano d’accordo, anche lei lo era.

I genitori nicchiarono un poco: la ragazza aveva come dote un appartamento e un bel corredo; il giovane era ebanista – un gran lavoratore certo- ma come professione non certo all’altezza della figlia.

Tuttavia, il giovane parlò del suo progetto di recarsi con la futura moglie in Argentina, a Buenos Aires, dove aveva dei parenti che si erano ben sistemati e che gli offrivano ospitalità e un lavoro che avrebbe avuto ottimi sviluppi.

L’evidente amore che il giovane dimostrava verso la ragazza e il mito dell’America, terra dove ci si poteva arricchire facilmente- come si favoleggiava in quegli anni- convinsero i genitori a dare il loro assenso.

Fu così che , dopo il matrimonio, i due giovani si imbarcarono verso la terra promessa.

Il viaggio fu disastroso; lei soffrì di mal di mare quasi tutto il tempo e rimase sempre chiusa nella cabina.

A Buenos Aires non riuscì ad ambientarsi: non conosceva la lingua né aveva alcuna voglia di impararla. Buenos Aires la spaventava per la sua grandezza e la sua estraneità: non usciva quasi mai e le rare volte in cui il marito la forzava ad andare fuori per un passeggiata o per un film, non vedeva l’ora di tornare a casa. A casa: per lei la sua casa era nella sua città di origine, in Sicilia, una città di provincia, ma che lei amava perché era la sua città e le era nota. Soffriva di nostalgia e pensava continuamente alla casa dei suoi genitori, alla strada nella quale abitava e dove conosceva tutti .

Quando rimase incinta, rimpianse amaramente di essersi imbarcata in quell’avventura: le mancava la madre e i parenti di Buenos Aires, parenti di suo marito, non le erano particolarmente simpatici.

Fu così che dopo la nascita del figlio, il suo primogenito, tanto fece e tanto disse che convinse il marito a farla tornare in Sicilia, promettendogli che sarebbe tornata dopo qualche tempo, quando il bambino fosse cresciuto un po’.

Ma il ritorno in America non avveniva mai e quando il marito si rese conto che non sarebbe tornata, incapace di starle lontano, lasciò il promettente lavoro a Buenos Aires e fece ritorno in patria.

Mentre la donna ricordava, suonò il telefono. Era il figlio maggiore che si informava della sua salute. – Ah, ti ricordi ancora che esisto?- lo aggredì- Non vieni mai a trovarmi. Cosa fai? Passi il tempo sempre con quelle puttane di teatro?- Il figlio, scocciato, riattaccò il telefono. E dire che quello era il figlio preferito. Quante gliene aveva fatte vedere! Da piccolo aveva avuto un’infezione al braccio e lei lo aveva curato per mesi, soffrendo insieme a lui, soprattutto quando aveva capito che il braccio non avrebbe più recuperato la sua normale mobilità.

Cresciuto, aveva cominciato a creare un sacco di problemi. A scuola non studiava: e dire che il padre- il quale, tornato in Italia, aveva avviato una piccola industria con discreti risultati economici- lo aveva iscritto in una prestigiosa scuola privata, frequentata dai figli dei maggiori professionisti della città, con la speranza che il figlio potesse diventare avvocato o medico o ingegnere.

Ad aggravare la situazione aveva deciso invece di fare l’attore e si era messo a frequentare una piccola compagnia di attori dilettanti.

E qui era successo il guaio maggiore: nella compagnia c’era una bella ragazza, alta , bruna , formosa, di quasi dieci anni più grande di lui, separata dal marito, la quale, commessa in un grande magazzino, la sera recitava nei piccoli teatri parrocchiali. Per i tempi, il comportamento della donna era qualcosa di inaudito: una donna perbene non si sarebbe mai separata dal marito- era consuetudine che le donne dovessero sopportare con santa pazienza qualsiasi infernale vita coniugale- e men che mai sarebbe rimasta fuori di casa la sera per..recitare!

Quando i due si innamorarono e il padre di lui venne a conoscenza della relazione- incurante di capire se la donna non fosse comunque una donna perbene, come in effetti era- minacciò di cacciare il figlio fuori di casa e poiché lui, senza curarsene, continuava la sua vita disordinata, mise in atto la sua minaccia.

Cacciato di casa, la soluzione naturale fu di andare a stare con la donna che viveva da sola in un piccolo appartamento, mantenendosi con il suo lavoro di commessa.

Lui non lavorava perché, oltre che la vocazione di attore, aveva scoperto in sé anche la vocazione dello scrittore. Pertanto, mentre la compagna lavorava, lui si dedicava al teatro e alla scrittura di commedie , senza ricavarne naturalmente neanche una lira.

I ricordi dell’anziana donna furono interrotti dall’ingresso nella stanza del figlio minore. Questi, senza guardarla e senza rivolgerle la parola, controllò che avesse accanto a sé tutto quello che le serviva- acqua, fazzoletti di carta, telefono.

– Ti sei deciso a cercare un impiego? – l’apostrofò la madre- Sarebbe anche una buona idea mettere su una cartoleria: si guadagna bene- Il figlio non le rispose. – Sempre così! Sempre con questo maledetto teatro, anche tu!- Il figlio uscì dalla stanza senza una parola.

Era il più piccolo dei suoi figli: ne aveva avuti cinque, ma solo due sopravvissuti.

Era stato un bambino dolcissimo, timido e attaccatissimo alla madre; proprio per questo lei lo aveva un po’ trascurato, presa com’era dalle vicende dell’altro figlio, che voleva proteggere ad ogni costo dal padre. Questi infatti, dopo averlo cacciato di casa, le aveva ordinato di non cercarlo e di non aiutarlo in alcun modo e alle petulanti e querule proteste di lei, l’aveva anche minacciata. Da quando aveva avuto la grande delusione del figlio maggiore, il marito era diventato un altro uomo: chiuso, scorbutico, sospettoso nei suoi confronti. E aveva ragione di sospettare: lei riusciva ad aiutare di nascosto il figlio- soprattutto da quando questi aveva avuto un bambino ed era in condizioni veramente indigenti – servendosi dell’altro figlio che utilizzava come messaggero di cibo, denaro e altri soccorsi.

L’altro figlio era adolescente quando era avvenuta la tragedia familiare e, ancora attaccato alla madre, disapprovava il padre che si dimostrava così duro e inflessibile nei confronti del figlio. Per tale motivo, si recava a casa del fratello, gli portava i cibi che preparava la madre e restava a fare da baby sitter al nipotino quando il fratello e la cognata la sera andavano a recitare nei piccoli paesi della provincia.

Il fascino del teatro tuttavia aveva contagiato anche lui, con la differenza che, mentre per il fratello fare teatro significava esibirsi in piccole compagnie dialettali, prive di qualsiasi riferimento culturale, per lui il teatro era qualcosa di più profondo: leggeva moltissimo, approfondiva lo studio dei più importanti autori teatrali e sognava di recitare in teatri di prosa con grandi attori.

Quando la madre si rese conto che anche lui si stava dedicando al teatro, impazzì di rabbia. Un giorno, in cui non era in casa, entrò nella sua stanza e strappò tutti i libri che lui aveva comprato e custodiva con tanto amore.

Quando il ragazzo si accorse di quello che aveva fatto la madre, la quale cominciò ad inveire contro di lui gridando che non voleva che facesse la fine del fratello e che doveva dimenticarsi di quel maledetto teatro, si chiuse nella sua stanza e non le rivolse più la parola.

Nel frattempo la compagna del fratello era rimasta di nuovo incinta. A questo punto qualcosa si spezzò nell’animo del giovane.

Capì che fino a quel momento era stato strumentalizzato dall’egoismo dei suoi familiari : dalla madre che lo usava per soccorrere il fratello, dal fratello stesso che continuava a fare i suoi comodi incoscientemente . Ruppe ogni rapporto con il fratello e con la madre alla quale non rivolse più la parola fino alla morte di lei.

Aveva lavorato per qualche anno nell’ industria del padre, anche dopo la sua morte , ma poi si era sposato, aveva messo su una compagnia di attori professionisti e si era dedicato completamente al teatro. Abitava nell’appartamento sopra quello della madre e, pur senza mai rivolgerle la parola, si occupava di lei, badando che non le mancasse nulla.

“Perché sono così disgraziata?- pensava la donna- Io ho sacrificato la vita per i miei figli ed ecco come sono ripagata. Uno non viene mai a trovarmi e l’altro non mi rivolge la parola.”

Mentre rimuginava fra sé e sé, suonarono alla porta e la ragazza fece entrare due giovani: era il nipote, figlio del figlio maggiore, medico, che veniva a trovarla di tanto in tanto con la moglie. La donna si illuminò: “c’era qualcuno che si prendeva cura di lei-pensò- mio nipote è un tesoro!”

Il figlio maggiore, infatti, a furia di raccomandazioni politiche, era riuscito a trovare un lavoro al Comune e viveva in modo più decoroso, aiutato sempre dalla moglie, che si era scoperta una fine ricamatrice e che lavorava fino a tarda notte, consumandosi gli occhi per arrotondare il magro bilancio e mantenere i due figli all’Università.

I due ragazzi, infatti, erano due giovani brillanti: entrambi medici, generosi, pieni di

umanità , erano il frutto dell’educazione e dei sacrifici della madre: già proprio lei, quella donna considerata perduta e messa al bando da tutta la famiglia.

“I miei nipoti sono bravi ragazzi- pensò la donna, mentre descriveva minutamente i suoi malanni al nipote- anche se l’altro viene a trovarmi di meno. Devo ricompensarli per la loro affettuosità”.

Decise così di lasciare in eredità ai nipoti l’appartamento dove abitava, diseredando in effetti il figlio maggiore, che l’aveva delusa. Al figlio minore aveva regalato l’appartamento dove abitava da sposato; quindi pensava di essersi comportata con giustizia. Alla fine i due nipoti erano i figli del figlio, quindi lui non poteva prendersela per non aver avuto niente dalla madre. D’altronde ormai era vedovo, aveva la sua pensione, non aveva bisogno di niente.

Mentre pensava a tutto questo suonò il telefono. Era una cugina che le era molto affezionata; in verità, la figlia di una cugina, che lei aveva aiutato quando si era ritrovata a mettere al mondo due gemelli dopo appena un anno dal figlio maggiore.

Lei era andata ogni giorno ad aiutarla con i tre bambini, che ora considerava come dei nipotini.

– Come stai? –le chiese la cugina. Lei rispose con le solite lamentele. La ragazza che la derubava, i figli che la trascuravano, i nipoti affettuosi sì, ma che venivano a trovarla raramente. La cugina , dopo averla ascoltata pazientemente, cominciò anche lei ad esporre i suoi problemi : i due figli maschi disoccupati, la figlia che lavorava e che quindi le lasciava ogni giorno le due bambine e questo la stancava.

Finito di lamentarsi reciprocamente, soddisfatte, si salutarono.

La donna continuò a rimuginare, interrompendo ogni tanto il corso dei suoi pensieri per chiamare la ragazza e farsi dire quello che stava facendo.

Una di quelle volte, la ragazza non rispose; lei la chiamò più volte, ma non ebbe nessuna risposta. Allora si alzò con fatica e appoggiandosi alle stampelle fece qualche passo verso l’altra stanza per cercare la ragazza. Ma inciampò nel tappeto e cadde per terra: battè la testa sul pavimento e rimase stordita per un po’. Quando riprese i sensi, si accorse di non poter più parlare e di avere il braccio paralizzato.

Oh, Dio- pensò- mi è venuto un ictus. Alzò il braccio rimasto mobile agitandolo verso la ragazza che nel frattempo con calma era arrivata nella stanza. La ragazza la guardò freddamente, poi prese il telefono, fece un numero, disse: – Vieni.

Quindi posò il telefono, andò verso l’ingresso, aprì il portone e la porta d’ingresso dell’appartamento ed attese. Dopo circa un quarto d’ora si presentò alla porta un giovane, il suo convivente.

– Facciamo presto- disse la ragazza. Lo guidò verso le varie stanze, nelle quali cominciarono a svuotare i cassetti e gli armadi, mettendo tutto quel che potevano dentro le valigie che avevano preso in un ripostiglio.

Dopo aver arraffato tutto quello che potevano, il giovane uscì portando con sé le valigie. La ragazza si mise il cappotto, prese la borsa, andò a dare un’ultima occhiata alla donna che giaceva per terra e “ Crepa- le disse- brutta vecchiaccia avara” e andò via.

La donna rimase per terra, lucida, ma incapace di muoversi.

“Perché tutto questo a me- pensò- Io che non ho mai fatto male a nessuno, anzi ho solo fatto del bene a tutti”.

Poi chiuse gli occhi e si lasciò andare.

Terzo racconto teatrale

Ascoltava con attenzione il giovane che era seduto davanti a lei. Era in terapia da alcuni mesi e solo da poco tempo era riuscito a farlo parlare sinceramente di sé e dei suoi problemi. All’inizio il ragazzo non riusciva quasi a parlare senza balbettare e ogni tentativo si concludeva con una crisi di pianto.

Ma con dolcezza e pazienza era riuscita a poco a poco a guadagnarsi la sua fiducia: era molto apprezzata per questo. Riusciva a far parlare di sé le persone che le si affidavano e riusciva a guidarle nei meandri della loro psiche, snidando complessi, traumi, angosce nascoste.

Il ragazzo aveva subito una forte delusione amorosa: la sua ragazza, della quale era innamoratissimo, lo aveva tradito con il suo migliore amico e quando lui se ne era accorto e le aveva chiesto spiegazioni, gli aveva risposto che lei non amava i perdenti e che lui lo sarebbe stato sempre nella vita. Da quel giorno si era chiuso nella sua stanza, rifiutandosi di parlare con i genitori che, solo dopo molte insistenze, erano riusciti a convincerlo a farsi seguire da una terapista.

Ora, al contrario, faceva fatica a farlo smettere di parlare di sé. Guardò l’orologio: l’ora era finita. Con la sua solita dolcezza, lo indusse a concludere il suo discorso, dandogli il prossimo appuntamento.

Uscito il ragazzo, si rilassò sulla sedia e chiuse gli occhi. Lo faceva sempre: aveva bisogno di riprendere il contatto con se stessa, dopo essersi calata nella vita di un altro essere umano per dargli aiuto.

Ripensò con soddisfazione ai risultati del suo lavoro: pochi i fallimenti, più numerosi i successi. E dire che non era una psichiatra, ma una terapeuta che aveva seguito un corso, ottenendone un diploma che l’aveva autorizzata ad esercitare. L’aveva aiutata molto probabilmente la sua precedente professione: maestra elementare da parecchi anni, il contatto con i bambini e lo scrupolo e l’amore con i quali li seguiva crescere, le avevano dato un intuito particolare nel capire gli altri, nello scandagliare i loro problemi e nel trovare una strada per aiutarli a risolverli.

Chi l’avrebbe detto alcuni anni fa che la sua vita sarebbe cambiata in modo così radicale!

Ricordò la sua giovinezza, gli studi magistrali e lo studio della danza; era piccola, minuta e quando danzava sembrava librarsi in aria senza peso. Aveva anche partecipato ad uno spettacolo teatrale che si svolgeva in un circo, recitando proprio la parte della ballerina che, alla fine dello spettacolo, usciva nella parata finale tenendo per mano uno scimmione: la ballerina e lo scimmione!

Rise ripensando allo scimmione, un ragazzone alto e robusto che era allora il suo fidanzato e che in seguito sarebbe diventato suo marito.

Che anni stupendi erano stati! Essere giovani, innamorati, convinti di aver trovato la persona con la quale avrebbe diviso la sua vita fino alla vecchiaia, ballare, condividere i sogni di quei giovani attori che con entusiasmo stavano cercando di costruire un teatro diverso, intenso , che offrisse strumenti culturali ad una società pigra che cercava solo evasione e divertimento.

Anche quando non aveva più partecipato agli spettacoli, aveva continuato a condividere i problemi e le esaltazioni di quel gruppo di attori che non si sarebbe mai disperso, ma sarebbe rimasto unito anche soltanto da un’amicizia personale.

Chiamò la segreteria perchè facesse entrare il prossimo paziente.

Finite le sedute, rimase ancora un po’ nello studio a leggere i dossier dei pazienti che avrebbe incontrato l’indomani, quindi andò a casa.

Viveva da sola, separata da anni dal marito. I figli, ormai entrambi sposati, vivevano la loro vita, anche se in continuo contatto con lei, che li aveva sempre seguiti con amore e aiutati a risolvere gli inevitabili problemi prima dell’adolescenza e poi della vita coniugale.

Si preparò la cena e portò il vassoio davanti alla televisione: scelse un film , consumò la cena, poi si allungò sul divano, tolse l’audio alla televisione e, con gli occhi chiusi, si mise a riflettere sulla sua vita.

La separazione dal marito l’aveva distrutta; aveva sempre avuto una cieca fiducia in lui, lo aveva sempre seguito nei suoi strani comportamenti, nelle sue convinzioni ferree che non collimavano quasi mai con quelle degli altri esseri umani. Aveva sopportato i suoi orari strani, senza alcun riguardo per i bisogni della famiglia: orari regolari dei pasti, svaghi domenicali o altri appuntamenti “borghesi”. Ma lo amava comunque perchè il comportamento “libero” di lui era compensato dalla sua bontà d’animo, dalle convinzioni politiche che collimavano con le sue, dall’ impegno sociale, dall’amore per i loro bambini e dalla fedeltà verso gli amici.

Per tutte queste ragioni, che le rendevano facile sopportare il comportamento “libero” del marito, aveva considerato riuscito il suo matrimonio e soddisfacente la sua vita, divisa tra l’insegnamento, la casa, i figli.

Per questa sua cieca fiducia, poi, non era riuscita a sopportare il tradimento di lui. Non aveva mai sospettato che avesse un’amante, occupato com’era con il suo lavoro e i suoi impegni politici e sociali, i soli per lei che lo sottraevano ad una vita regolare.

Quel giorno aveva comprato un nuovo telefono e lo aveva installato in camera da letto, che era al secondo piano della villetta in cui abitavano, per rispondere più comodamente se si trovava al piano di sopra. Al marito non aveva detto niente per fargli una sorpresa.

Salita in camera per cambiarsi, dopo essere tornata a casa, aveva pensato di chiamare la madre per sentire come stava, e sollevando la cornetta del telefono, aveva sentito la voce di lui che diceva – Si amore mio, va bene , ci vediamo domani-

Rimase impietrita, continuando ad ascoltare. Sentì una voce femminile che pronunciava parole che lei non riuscì a capire , sbalordita com’era nel riconoscerla. Era una sua amica, cliente del marito: non poteva sbagliarsi e, poi, dopo un momento, sentì che lui la salutava chiamandola per nome. Non c’erano dubbi.

Le sembrò che un coltello le si conficcasse nel cuore. Sentiva caldo e freddo nello stesso tempo: si sedette sul letto e rimase a lungo con la testa china e le braccia fra le gambe, come uno straccio bagnato e strizzato.

I giorni seguenti erano stati dolorosi: lei aveva chiesto la separazione e lui era andato via da casa, lasciandola con i bambini, Da quel momento era nato in lei una sorta di desiderio di rivincita. Aveva vissuto per anni all’ombra del marito, cercando di accontentarlo in tutto e ora si ritrovava sola

con la responsabilità dei figli.

Decise che doveva farcela. Era sempre rimasta affascinata dalla professione di psicoterapeuta e poiché non aveva una laurea specifica, doveva cercare di frequentare un corso di specializzazione sulla materia. Nel giro di un paio d’anni, riuscì a specializzarsi ed avviò uno studio proprio. Appena le fu possibile si mise in pensione dalla scuola e si dedicò interamente alla sua professione.

La sua dolcezza e la sua pazienza, unite ad una notevole professionalità le fecero raggiungere un successo insperato. Aveva molti pazienti e riusciva ad avere ottimi risultati la maggior parte delle volte.

Ripensò al ragazzo che stava seguendo e che sembrava stesse notevolmente migliorando. Sbadigliò e decise che era ora di andare a letto. Portò con sé il libro che stava leggendo, ma dopo qualche minuto il sonno la colse. Si era appena addormentata quando la svegliò il suono insistente del campanello. Chi poteva essere a quell’ora? Forse i suoi figli? Era successo qualcosa. Si alzò in fretta e prese il citofono: “Chi è?” – chiese. “ Sono io- rispose una voce giovane agitata. Mi apra la prego!- Riconobbe la voce del suo giovane paziente. “Cosa è successo? Perché vieni a quest’ora?” “ Devo assolutamente parlarle,la prego”. Il timore che un suo rifiuto potesse fargli compiere un gesto disperato la spinse ad aprire il portone e a fare entrare il giovane. Il quale non aveva un aspetto disperato, anzi aveva un volto radioso, come se gli avessero appena comunicato una notizia che lo riempiva di gioia. “Cosa ti è successo? Perchè questa fretta di vedermi? Non potevi aspettare il giorno della tua visita?” “No, non potevo; dovevo dirti tutto . Tutto quello che all’improvviso si è chiarito nella mia mente”

Lei notò che il giovane era passato al tu e questo la inquietò un poco. Sospirò, quindi lo fece entrare nel salotto , si sedette in una poltrona di fronte alla sua e si dispose ad ascoltarlo.

“Lo sai che questo è molto irregolare-gli disse- non sono consentite visite fuori orario durante la terapia, tranne per casi molto gravi”. “Ma questo lo è da un certo punto di vista- esclamò il ragazzo-

E’ importante che io abbia finalmente capito chi sono e cosa voglio. Ho capito che quello che provavo per quella ragazza era solo una cotta, una cotta passeggera, tanto è vero che me ne sono liberato in breve tempo, naturalmente soprattutto con il tuo aiuto. Ma questo mi ha fatto capire che non mi serve la compagnia di una ragazzina, immatura, inesperta e che soprattutto non sa quello che vuole. Io ho bisogno di una donna matura, che mi guidi, che mi aiuti a trovare me stesso, a farmi capire ciò che voglio essere nella vita. E ho capito che questa donna sei tu! Solo tu mi conosci veramente, solo tu sai come guidarmi, ma soprattutto sei tu la donna che amo!.”

Il giovane tacque e le sorrise raggiante. Lei lo guardò sgomenta, ma si riprese subito: sapeva che questo poteva capitare, anzi non era raro che un paziente si innamorasse della terapeuta, ma non poteva immaginare che questo avvenisse da parte di un giovane diciottenne per una..sessantenne. Chiuse gli occhi con quel senso di raccapriccio che la coglieva quando pensava a se stessa come una sessantenne. Quell’età era solo anagrafica; non la riguardava; lei aveva sempre ventanni e lo stesso entusiasmo , lo stesso slancio di una ventenne in tutto quello che faceva. Che importavano le rughe, i capelli tinti, il mal di schiena, se era capace di dare alla sua vita lo slancio e la gioia di un’adolescente?

Ma adesso bisognava essere molto cauti: parlare al ragazzo con molta dolcezza e fargli capire che la sua era un’altra follia passeggera, dovuta al suo stato di turbamento, non ancora guarito.

“ Ascolta,caro..” cominciò, ma non ebbe il tempo di finire la frase; il giovane l’aveva presa fra e braccia e aveva cominciato a baciarla . Qualcosa di strano avvenne in lei: era tanto tempo che non sentiva le braccia forti di un uomo attorno a sé, la labbra dolci che la cercavano avidamente e un languore insolito la colse. Si lasciò andare, mentre ironicamente le tornava in mente un ricordo scolastico..” la sventurata rispose…” E mentre con gli occhi chiusi “rispondeva “ al giovane, sapeva di essere perduta.

Quando , qualche ora più tardi, si ritrovò di nuovo sola, si guardò incredula allo specchio. Il senso di benessere e di gioia si rifletteva nella luminosità della pelle, nel luccichio degli occhi, nell’involontario sorriso che le schiudeva le labbra.

– Ma sono pazza?- disse a se stessa- Come ho potuto farlo? Questo è contrario ad ogni etica, ad ogni deontologia, ad ogni senso comune. Devo subito interrompere la terapia con una scusa; non posso più vederlo. Questa cosa non può ripetersi. E’ giovane, come è guarito dalla prima cotta, guarirà presto da questa.”

Ma quando l’indomani telefonò alla madre del giovane per propinarle la scusa che aveva preparato, si ritrovò a parlare con lui. Dopo avergli detto che non poteva più continuare la terapia e che quel che era successo la sera prima era un grave sbaglio, rimase in silenzio. Quindi sentì un clic: il ragazzo aveva chiuso il telefono.

“Si starà precipitando qui per parlarmi- pensò- Devo fingere di non essere in casa. Deve capire che è finita definitivamente.”

Si barricò in casa, spegnendo tutte le luci e attese il suono del campanello. Ma nessuno suonò, nessuno venne a cercarla. Decise di uscire e di andare a trovare la figlia e i nipotini, ma l’inquietudine l’attanagliava. Perché non aveva risposto ? Perché non era venuto a discutere , a pregarla, a tentare di convincerla?

La giornata passò senza alcuna novità: la sera tornò a casa e, preparata la cena, si dispose a mangiare davanti alla televisione , come faceva sempre.

Ascoltò il telegiornale distrattamente, ma ad un tratto una notizia attirò la sua attenzione: un giovane di diciotto anni si era suicidato, buttandosi dal balcone. Non si conoscevano ancora le cause del folle gesto, ma da indiscrezioni, sembrava che il giovane avesse lasciato una lettera in cui spiegava il perché della sua triste decisione. Solo che la polizia aveva sequestrato la lettera e per il momento non ne aveva divulgato il contenuto.

Si sentì gelare: e se fosse il suo paziente? Come poteva saperlo , con chi poteva parlare? Non poteva fare altro che aspettare l’indomani per vedere se sul giornale veniva citato il nome del giovane.

Si coricò sapendo che non avrebbe chiuso occhio, mentre l’angoscia dell’incertezza e il senso di colpa l’attanagliavano.

Ma non dovette aspettare l’indomani: a mezzanotte suonarono alla porta: “Forse è lui- pensò- Se è lui devo aprirgli”. Ma quando aprì la porta senza neanche chiedere chi fosse, si ritrovò davanti a due poliziotti. – Deve venire con noi, signora- le disse uno dei due- Abbiamo bisogno di parlare con lei”.

Finito di stampare

nel giugno 2013

da Il Garufi Edizioni s-r.l.

Via Vittorio Emanuele Orlando, 174

95127 Catania

E-mail: ilgarufiedizionisrl@libero.it

Tel: 393.4808985

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