Trischitta, Domenico – 1999 (Racconti) con interventi di Manlio Sgalambro e di Giuseppe Manfridi (Il Garufi Edizioni, ristampa dell’Edizione 2013)

Domenico Trischitta

1999

Il Garufi Edizioni s.r.l. – Catania

Collana “Gli occhi di Barbara

Anno 2013

n. 1

Direzione:

Salvatore Paolo Garufi

Impaginazione:

Francesca Tosto

Revisione testi:

Carmelo Narzisi

Moralità plutarchee

Nel frattempo appare quella che chiamiamo, semplicemente, ‘letteratura odierna’. La quale è per lo più una manifestazione della ‘volontà di scrivere’. Volontà intesa nel senso più malfamato, e scrivere pure. Poi c’è una ‘letteratura’ che potremmo chiamare ‘senza tempo’. Da qualsiasi parte o da qualsiasi tempo provenga te la ritrovi dentro. Ma a che pro rinarrare ciò che viene qui narrato? L’ingenuità epica, proprio come tale, sfugge alla finzione letteraria, alle domande sul vero e sul falso. Ti entra nell’anima e te l’accarezza. Ciò ti basti. Tu ascolti, non leggi. E qualcosa in te viene evocato. Le righe di questi racconti di Trischitta sono rivoli preziosi. Acqua lustrale. Sono questi gli effetti che desta. Siano ricordi o sensazioni. Emozioni che sciolgono, per un istante, anche ciò che ha indurito chi è vissuto.

Moralità plutarchee o ‘figure’ della Fenomenologia dello Spirito…In ogni caso la descrittiva dell’autore si inoltra non nell’usuale narrato ormai decaduto, ma è come se ripartisse dall’inferno…La luce viene dopo. Dopo ancora scompare. E’ come se il nostro si aggirasse nel mondo delle Idee ma prima ancora ne esplorasse la caverna, l’utero generatore. Così le figure diventano paradigmi della nostra vile vita: figure penitenziali. Ma il narrare esatto e puntuale, secondo la vecchia catarsi le riscatta.

Manlio Sgalambro

1999. Non una profezia orwelliana, ma il dato di fatto di un travalico epocale tradotto in pulsione narrativa nell’incalzare di vicende tutte colte nella messa a fuoco di un loro dettaglio esemplare. E’ il finto minimalismo della grande scrittura.

Questa non è una raccolta di racconti, o se lo è, lo è come come ‘Dubliners’ di Joyce: è un paesaggio in movimento, un paesaggio di grande densità demografica dove tutto, citando Pessoa, è simbolo e analogia. E chi racconta, al pari di chi è raccontato, è parte stessa di un paesaggio che mai può eludere se stesso. Ogni cambio di prospettiva corrisponde all’estinguere di un lembo panoramico che ne matura un altro in cui, svanendo, prosegue, e lo stacco da una pagina interrotta al titolo che intesta la successiva è un battito di ciglia; non uno iato tra qualcosa che si è concluso e qualcosa che inizia, ma solo l’annuncio che l’occhio si è spostato.

In questo mondo, un’intera specie umana dall’io intermittente dipana spasimi, sofferenze e sogni quasi senza soluzione di continuità in un bruciare di vite che si adunano e si accalcano al ritmo tachicardico di brani molati per comporre un tessuto convulso ma integro, omogeneo.

Il diarismo si alterna al referto, e spesso all’interno della stessa pagina. Come spesso, ammirando i mille percorsi suggeriti dalla visione di un bosco, ci sentiamo parte stessa di quel bosco precipitati nel ricordo di quando lo traversammo, e poi improvvisamente di nuovo estranei ad esso, capaci solo di descriverlo dal di fuori, anche se un tempo, nel folto di quella selva, ci fu dato di vivere atti di crescita o di perdizione.

1999, ovvero il punto di vista da cui il paesaggio muove lo sguardo su se stesso. E’ la fine di un’epoca, è l’avvento di un’altra; è l’argine che cede, è la vigilia dell’ignoto. E’ il conto alla rovescia che ci spinge verso un continente temporale dalle dimensioni immani, che sono quelle di un millennio.

1999 significa un luogo/tempo in cui tutto è destinato cambiare, come le lire in euro: l’effimero e il sostanziale, e se dapprincipio il cambiamento non avverrà intorno, avverrà dentro. Forse, tutto è già cambiato. Forse, molto di ciò che fu nostro è già andato perso, e nuove cose già ci aspettano al varco. Forse, il nulla.

La specie umana creata da Trischitta è di questo che vive, di una danza sull’orlo del baratro nell’ebbrezza di progetti avidi poiché terminali; e di un eros pulsante, persistente, che l’ironia riscatta dall’inverecondia assoluta, da oscenità celiniane (e Cèline, con Carver, è uno dei grandi autori/nume del libro), ma senza nulla togliere alla sua travolgente carica vitale.

Giuseppe Manfridi

VIAGGI

1) IL TRENO

2) L’AEREO

3) FONDALI A BRUCOLI

4) LA GITA

5) SCOGLIERA D’ARMISI

6) STAZIONE CENTRALE

7) PASSEGGIATE

8) SPIAGGE

9) IL TEDESCO

10) ALLA FERMATA DEGLI AUTOBUS

11) DOMENICA AI LIDI

12) GITANI AL PORTO

13) NOTTE A GIARDINI

14) MOTEL AGIP

CITTA’

1) ROMA

2) NIZZA

3) VIENNA

4) PARIGI

5) SIENA

6) BARCELLONA

SPERANZE

1) L’ATTESA

2) L’AMORE

3) LA SOLITUDINE

4) LA POVERTA’

5) IL SOGNO

ILLUSIONI

1) FINE DELL’ATTESA

2) FINE DELL’AMORE

3) FINE DELLA SOLITUDINE

4) FINE DELLA POVERTA’

5) IL SOGNO INFRANTO

CERTEZZE

1) IL VECCHIO

2) PESCHERIA

3) RELIGIONI

4) ALLA FIERA

5) POLITICA

6) VIA ETNEA

7) FURTO ALLA RINASCENTE

8) MORALE

9) FIGLI

6) LETTERATURE

FINE DEL MILLENNIO

1) NATALE

2) SANTO STEFANO

3) SAN SILVESTRO

4) “LA NUOVA ERA”

VIAGGI

IL TRENO

La porta si chiuse. Scese le scale di corsa ed incrociò il vicino che gli augurò buon anno con la faccia da ebete. La macchina stentò a partire, poi si avviò percorrendo le strade illuminate a festa. Qualche botto anticipatore lo fece sussultare e gli ricordò confusamente il motivo della fuga. Che lei vada a farsi fottere!

Con il borsone pieno di mutande e calzini entro alla stazione, acquisto il biglietto solo andata, destinazione…non so…esito un attimo e poi dico Roma. Guardo l’albero di natale che illumina ad intermittenza l’ufficio delle informazioni. 21.45, un quarto d’ora alla partenza, l’esplosione di un petardo fallito e mi intrufolo nel convoglio deserto.

Il porto in lontananza, con le sue navi e luci, sembrava immobile come il presepio di casa sua. Sotto, il mare, assopito come un lago. Di passeggeri neanche uno, solo il marciare annoiato del controllore, che gli vistò il biglietto indicandogli la sua cuccetta, anche lui gli fece gli auguri con un tono di disprezzo, per colui che osava ricordargli che era di turno mentre tutti si apprestavano a festeggiare l’arrivo del 2000.

Il treno si muove incerto, come se tentennasse nella partenza, pian piano raggiunge un’andatura normale ed io chiudo gli occhi. Chi l’avrebbe mai detto che sarei stato l’unico protagonista e spettatore di un viaggio surreale, che si sarebbe lasciato alle spalle un millennio, si azzera tutto come il contachilometri di un’auto che raggiunge i centomila.

Alla stazione di Acireale non salì nessuno, neanche in quella di Giarre. A Taormina il controllore scese un attimo e sputò più volte a terra prima di accendersi una sigaretta. Si vedevano fuochi d’artificio in prossimità del mare. Si preparava un veglione per i turisti tedeschi e francesi. L’uomo delle ferrovie risalì ed il treno proseguì la sua marcia.

Accendo una sigaretta, ho brividi di freddo, mi alzo il bavero del giubbotto e mi accorgo che non mi rado da alcuni giorni. Mi stendo un po’ ma non resisto più di due minuti, guardo l’orologio, le 23.00. Sarà a Messina che comincerò a stare male, quando l’apoteosi di scoppi e luci avrà il sopravvento. Non potrò nascondermi, nè turarmi le orecchie, nè chiudere gli occhi, sarà tutto inutile perchè‚ l’unica scena che mi si presenterà sarà quella della fine.

Di Sicilia da percorrere non ne rimaneva più. L’estremità della costa fronteggiava quella del continente e in un attimo cominciarono ad attaccarsi con razzi luminosi ed esplosioni, come se una volesse definitivamente cancellare l’altra. Era questa la sensazione sfocata dell’unico passeggero del vagone fermo alla stazione di Messina.

Ho solo 102.000 lire in tasca, a stento basteranno per trascorrere un giorno a vagare per la capitale. Decido di prendere sonno ma so benissimo che quando chiuderò gli occhi la figura di lei mi tormenterà. E verrà ad insultarmi, a picchiarmi nel sonno, a minacciarmi di non farmi più vivo. Ma che importa ormai? Non mi sono accorto che le detonazioni sono finite, che il mezzo corre veloce nella notte, tra innumerevoli gallerie, e per un attimo penso di essere protagonista, assieme al controllore, del film “A Trenta secondi dalla fine”. Lui Jon Voight ed io Eric Roberts. Il sonno mi coglie di sorpresa, nel momento in cui lascio penzolare un braccio nel vuoto.

Il treno arrivò a Roma alle nove del mattino. C’era il sole ma la temperatura era rigida. Quando scese gli scalini nessuno si accorse di lui, nemmeno i quattro mendicanti seduti sulla panchina, nemmeno l’uomo delle bibite, nè il controllore compagno di viaggio. Si guardò attorno prima di incamminarsi per il lungo marciapiede e la sola gente che gli si parava davanti era quella che lavorava alla stazione.

C’è un’edicola aperta, guardo le riviste e chiedo il “Corriere della Sera”, nella prima pagina una foto del Papa, leggo la data 31 dicembre 1999. Non mi riesce di azzerare i ricordi, il viaggio surreale, i botti di fine anno e neanche la figura di quella donna da cui scappo.

L’AEREO

Cuba l’ho sempre immaginato, visto negli spot promozionali o nei depliants turistici. Adesso che sono sul volo Milano – L’Avana mi sento eccitato. Potrò parlare con quelle ragazze nere e dai glutei sodi, ne troverò una che fa al caso mio e la porterò con me in Italia. Ma forse rimarrò lì per sempre.

La danza si propagò per tutta la spiaggia, le meticcie si strusciarono contro i corpi dei biondi turisti, qualcuna cominciò a gridare sotto l’effetto della tequila. Il sole faceva luccicare i loro corpi abbronzati.

L’assistente di volo mi porge due tartine e una tazza di tè, ed io ricambio con un sorriso perso nel vuoto. Nel mare di Cuba ci sono i Marlin, grossi e veloci pescispada che saettano tra le onde. In quel film in bianco e nero con Spencer Tracy, che rivedo sempre volentieri, il pescatore riuscì a portare in riva solo la grossa lisca.

Si amarono sulla sabbia bianca, mentre quella continuava a gridare, questa volta dal piacere. La sbornia li rese eterni, nel muoversi incoscienti e nello scambiarsi i corpi. Il tramonto li sorprese avvinghiati, e mentre la palla di fuoco scivolò sotto il mare si ridestarono.

Siamo sopra l’oceano ed immagino il mio corpo mangiato dai pesci. Poi penso che sono quattro ore che volo e non sono riuscito ancora a rilassarmi. I bar dell’Avana, i piccoli lustrascarpe, la gigantografia del Che, mi ruotano attorno nella testa come un vortice. E mi addormento.

E’ notte. La spiaggia si popola di pescatori magri con cappelli di paglia, trascinano piccole imbarcazioni verso il mare parlando un idioma strano con cadenze spagnole. Caricano le reti e velocemente si immergono nel buio.

Sono trascorsi tre anni da quel volo. E’ un’altra notte, e solo nella mia barca sogno ancora un grosso marlin da trascinare fino alla riva.

FONDALI A BRUCOLI

Il mare è una tavola. Il suo colore va a dissolversi sul cielo, le scogliere calcariche sembrano sgretolarsi sulla riva, mentre le case padronali, anch’esse bianche, sono disabitate.

Si infilò sulla Citroen e partì. Il mare gli sembrò attraente e fu contento di aver deciso, proprio quella mattina, di pescare polpi alla baia di Brucoli. Erano passati dieci anni dall’ultima volta che si era immerso in apnea, poi aveva avuto problemi di otite e per necessità dovette smettere. Ma il richiamo dei fondali per uno che è nato accanto al mare è troppo forte e a lui era avvenuto proprio ciò, la voglia di immergersi nel silenzio, solo, con i lontani ronzii dei motoscafi amplificati dall’acqua.

La provincia siracusana è bianca, fatta di pietra antica e nobile. Quando la si attraversa percorrendo le provinciali si ha la sensazione di entrare nel mito arcaico greco, la stessa di quando si passeggia nella zona archeologica del capoluogo, con la pietra bianca e il mistero.

Indossò la muta e si immerse. Fu una sensazione unica, come quando si rivedono i posti della propria infanzia, ma con il mare si può interagire e il fascino è superiore. Scandagliò i banchi di roccia con la punta del gancio, proiettò lo sguardo più in là e vide un branco di ricciole. Scese a fondo più volte prima di vedere il polpo nascosto a metà sotto l’anfratto. Risalì, respirò profondamente e nuovamente giù, il mollusco si era ritirato all’interno e lui con il gancio cominciò a stanarlo. Quella sensazione e quei movimenti li conosceva a memoria, come le tecniche di guida automobilistica o addirittura di deambulazione. Dopo alcuni tentativi riuscì ad infilzarlo, due tentacoli gli si attaccarono al braccio, ed eccitato risalì. Il colore cangiante dell’animale si era stabilizzato su un rosso vinaccio, a modo suo reagiva. Uscì fuori dall’acqua e lo pose nella rete. Se ne rimase un’ora a scaldarsi sotto il sole, poi, quando vide il polpo ormai esausto ed immobile, si rivestì in fretta e ripartì.

LA GITA

L’automobile partì. Si immesse nella tangenziale, colpita dai raggi di sole, e la fredda giornata di dicembre si trasformò in calda e primaverile. I passeggeri, due bambini e due adulti, iniziarono un dialogo che li proiettò in un’atmosfera sognante di fiaba.

Roberto sostiene di aver visto delle mucche, ma non ne vediamo una, e allora le immaginiamo in alto, in cielo, e per non deluderlo le nuvole cominciano a muoversi e a ruminare. Stefano si assume il compito di descrivere le didascalie, le fa dormire, le fa baciare, appare anche un vitello che comincia a succhiare da entrambe. Ce le lasciamo alle spalle e mia moglie intona una filastrocca di animali.

Dove andavano? Si lasciarono alle spalle il Simeto sotto gli occhi vigili dei piccoli che, estasiati, ritornarono a guardare la strada. Si fermarono ad un distributore, ancora loro si divertirono ad annusare l’odore di benzina, ripartirono mentre un panorama sublime prese consistenza, il vulcano, la costa e la città in lontananza.

Stefano dà segni di insofferenza e Roberto, a ruota, ne imita i lamenti. E’ ancora Ada che li distrae e li invoglia a cantare con lei, mentre due camion pesanti rallentano la mia marcia. Penso a mia madre, alla forza di mio padre, alle sue braccia muscolose che mi sollevano da terra e mi dondolano. La vista di un cane morto interrompe il sogno, innesco la terza, ed in salita sorpasso i due mezzi pesanti.

La loro auto vista dall’alto sembrava una barchetta di carta alla deriva. Ma lentamente proseguiva il suo cammino, tra visioni immaginarie di bambini e sogni infranti di adulti, che a loro volta erano stati figli e visionari. Oltrepassarono l’ISAB, le rocce bianche di calcare, e ancora mare azzurro ed immobile.

“Sei uno stupido testone” dice Stefano, e Roberto lo avvinghia con le piccole braccia. Si innervosisce ed inizia a frignare, mentre Ada urla, si gira più volte e colpisce con la mano la schiena del più grande. Adesso piangono entrambi tra la mia indifferenza e quella della donna che mi sta accanto.

La macchina si fermò alla riserva di Pantalica. Le loro sagome sbucarono dall’abitacolo, i piccoli correvano verso il laghetto, urlando e ridendo. Marito e moglie rimasero dentro, mentre un grido di rabbia di lei squarciò il silenzio della Necropoli.

SCOGLIERA D’ARMISI

La voglia di mare mi portò dritto a quello della mia infanzia. Scesi le scale in pietra lavica e percorsi la galleria che sbucava sulle rocce nere. Era la fine di Settembre, le sarpe facevano ribollire le acque nella frenesia di mangiare erba dagli scogli.

L’espresso Roma Catania finisce la sua corsa che è durata tutta la notte, dal mare lo si osserva rallentare sibilando fischi d’arrivo. I massi di lava levigati dalla salsedine si stagliano sulla ferrovia.

Osservavo i granchi neri sporgersi più spavaldi rispetto ai mesi estivi, e per un pò fui incantato dai loro movimenti di danza. Mi inoltrai fino al Forte di Palermo, fin dove si snodano i binari direzione Messina. Là, mi fermai a contemplare i flutti schiumosi e lo scoglio di S.Elena dove una volta raccoglievamo le cozze.

Pescatori e bambini scendono giù a scegliere piattaforme naturali dove sistemarsi con l’esca. Dalla ferrovia guardoni annoiati osservano il lento camminare dei bagnini, tra passaggi di legno e cabine. Sul mare la zattera , eternamente ondeggiata dalle correnti, che dopo l’estate assume l’aspetto di un relitto alla deriva.

Mi denudai e presi il largo. Con le bracciate sfioravo le alghe strappate dalla mareggiata, sentivo l’odore degli scogli salati, non un odore ma per me lo era. Mi veniva in mente lo stesso aroma, di quando bambino, appoggiato alle spalle di mia madre, ritornavo a riva. La sua pelle cosparsa di oli abbronzanti a contatto con l’acqua salata. Mi ricordai che anche mio padre mi aveva detto qualcosa di simile, riguardo la schiena della sua sorella maggiore, e forse anche sua madre deve avergli raccontato la stessa storia parlando della nonna. La stessa storia e lo stesso mare.

STAZIONE CENTRALE

Il grande faro alogeno sovrasta e illumina tutta la piazza. Passeggeri sbucano dalla stazione e si infilano dentro i taxi e i bus. Il chiosco delle bibite è affollato da mauriziani in tenuta da baseball. Le automobili percorrono la rotonda nervosamente, mentre la statua di Nettuno e Proserpina viene cosparsa improvvisamente di luce fioca.

La danese arrivò un pomeriggio d’aprile, con uno zaino sgualcito e una gonna a fiori con due buchi davanti. Aveva lasciato Firenze con la convinzione di raggiungere una città calda, e così era arrivata a Catania, le era piaciuta la sua posizione sulla carta geografica e la presenza del vulcano.

L’edicolante chiude, i poliziotti iniziano la loro ronda, l’uomo delle informazioni non riceve più nessuno, e così il suo ufficio, visto attraverso i vetri, sembra tetro. Lo spazzino comincia a pulire il marciapiede del binario n.1.

Era rimasta un bel pò a guardare la raffigurazione statuaria del “Ratto di Proserpina”, e pensò alla sirenetta di Copenaghen e a quanti chilometri aveva percorso girovagando per l’Europa. Si sistemò sul prato accanto alla fontana, e vide altri stranieri, vestiti in maniera diversa dalla sua, che bivaccavano stanchi. Poi notò alcuni magrebini che sostavano dinanzi la passeggiata che delimita i binari. La luna sfiorava il mare.

Arriva l’espresso Milano-Siracusa. Militari rumorosi scendono di corsa e si fermano davanti alle cabine telefoniche, uno di loro, quello con una cicatrice sullo zigomo, si impossessa della cornetta e parla, gesticolando per mezz’ora. Escono fuori, pisciano dietro le piante del giardino e poi scompaiono.

La danese, davanti all’agenzia di viaggi chiusa, osservava i marocchini prostituirsi accanto alla statua. Si infilavano velocemente in utilitarie, mentre altri prendevano il loro posto, sembravano ratti che consumano avidamente il pasto. Pensò, allora, che si sarebbe data ad arabi e senegalesi per sole 20.000 lire, non poteva chiedere di più con il suo aspetto trasandato. Tra sedili in pelle sgualciti consumò seghe e rapporti orali, camminò qualche volta per il corso Sicilia, e lì venne derisa da minorenni in scooter con capelli tagliati alla cheyenne.

Di giorno la piazza della stazione si intasa fino all’inverosimile, i clacson intonano suoni dodecafonici insistenti, e l’agenzia di viaggi si riempie di turisti mentre il vecchio posteggia il suo carretto con la frutta.

La danese non riusciva a dormire più di quattro ore a notte. Le sue occhiaie profonde solcavano il viso rotondo con i capelli appiccicaticci di sporcizia. Erano troppi i disperati che, come lei, invadevano questa città illusoria e piena di trappole per uomini.

Il supermercato di corso Sicilia è strapieno. Giovani coppie con figli e anziani sostano davanti alla cassa. Dietro una straniera, che aspetta con sguardo perso nel vuoto, di pagare la sua Ferrarelle.

PASSEGGIATE

Con la sua mountain bike affrontò la salita che conduce alla vasca dei cigni, esitò un attimo e girò a sinistra, direzione piazza San Domenico. Si soffermò su una marcia dura per provare la sua resistenza di quarantenne. Niente da fare.

In quel recinto viveva Tony l’elefante, il pachiderma malinconico che tentò più volte di suicidarsi. Oltrepasso lo slargo con le fontanelle, giro a destra imprimendo rabbia alla mia andatura stanca. Mi siedo su una panchina e fumo una sigaretta, ripenso al grosso animale e a mio padre che me lo fece conoscere.

Incrociò dei ragazzini sui pattini, li evitò come in uno slalom e affrontò la discesa, passò i grossi alberi con le radici aeree, bevve alla fontanella situata di fronte alla postazione dei vigili urbani. Un uomo in divisa lo guardò annoiato.

Accarezzo le grosse radici, provo se per caso riesco ancora a nascondermi, come facevo da bambino assieme ai miei fratelli. Allora c’era anche mia madre, bella, profumata e con i capelli corti. Non riesco più a trovare l’incisione con la data, 25 gennaio 1972.

Si ritrovò nel grande piazzale e rivide la scena di molti anni fa, bambini che su biciclette e cavallini meccanici gareggiavano come forsennati in un’arena. Nelle panchine circolari solo vecchi che sbraitavano all’indirizzo della giovinezza e qualche mamma della provincia che accompagnava i figli. Si sedette anche lui e chiuse gli occhi.

Ascolto un anziano che parla di comunismo, si infervora e gesticola verso i suoi interlocutori sdentati. Decido di provocarlo e gli dico che quando c’era “lui” certe cose non succedevano. Sbraita, sputa mentre parla, punta i suoi occhi rossi sulla mia faccia, ed io a quel punto riprendo la bicicletta e riparto.

Uscì di scena nel momento in cui il fotografo immortalava un bambino con due colombi in mano. Davanti al palazzo delle poste immaginò di vedere sua madre che si avvicinava allo stesso bambino della foto, e di colpo rivide il suo volto. Era il 25 gennaio del 1972.

SPIAGGE

18 dicembre 1999, ore 11,45. Un uomo percorre viale Kennedy, all’altezza della piscina comunale, distratto dai raggi del sole, per un motivo imprecisato inverte la marcia e posteggia dinanzi allo stabilimento balneare. Si avvia a piedi sulla sabbia sporca, si sofferma a guardare il porto in lontananza e poi decide di denudarsi. Rimane in mutande ad osservarsi i piedi bianchi, in un attimo si immerge nell’acqua gelida.

Chi era quel uomo? Un turista di passaggio, un rappresentante fallito, un maniaco o un folle? Non c’era nessuno, si sentiva il latrare dei cani in lontananza. Alcune impronte di cavalli assieme a quelle di gabbiani formavano dei disegni surreali. L’uomo nuotava goffamente, lateralmente, come fanno i granchi, poi si fermò ed immerse la testa, sbuffando ogni volta che usciva in superficie. Sopraggiunse una coppia di anziani tedeschi che lo guardò per un po’, e sorridendo si dileguarono.

Si stende accanto la riva, poi dalla tasca del cappotto prende delle foto tessera, le guarda una per una e le strappa a pezzettini, le butta a mare ridendo senza motivo. Adesso sbircia i suoi documenti personali, una patente, una carta d’identità, un tesserino professionale e strappa anche quelli. Nel giro di pochi minuti il cielo si fa nero, il sole scompare tra le nubi piene d’acqua. Un altro bagno mentre la pioggia comincia a cadere fitta, le sue risate si fanno insistenti come se volesse farsi beffa del temporale.

Chi era quel uomo? Quel uomo senza più ricordi e generalità.

Si rotolava tra i granelli, catrame e pesci morti, tra rifiuti e lattine vuote. I cani abbaiavano insistentemente, come se avessero avvertito un pericolo o una disgrazia in arrivo. Si rivestì in fretta ed inzuppato di pioggia ed acqua salata ripartì con la sua macchina.

18 dicembre 1999, ore 13,45. Un rappresentante di articoli da regalo entra nel bar della stazione di servizio di Agnone. Il suo cappotto è sgualcito, sorseggia il caffè lentamente, ha brividi di freddo, ogni tanto si strofina la fronte con la mano.

IL TEDESCO

Aveva mendicato per un anno nella Schlossplatz di Stoccarda, poi, stanco del clima rigido, una sera si infilò in uno scompartimento del treno per Roma per poi raggiungere la Sicilia. Sostò 12 ore alla stazione Termini e alle 22 prese la coincidenza per Catania.

Il suo avamposto si trova di fronte al lido Azzurro, il posteggio abusivo davanti allo stabilimento è stato occupato dai catanesi, che di domenica riescono a guadagnare anche 500.000. A lui non gli rimane che gestire la parte meno affollata di auto, chiedendo solo 1.000. Tutto questo gli è costato fatica, scontri fisici e umiliazioni riservate solo agli africani. Ma lui è tedesco, e con la sua folta barba bionda si è guadagnato la stima dei clienti.

Appena uscito fuori dalla stazione centrale di Catania si soffermò a guardare la statua del “Ratto” e notò la sua straordinaria somiglianza con il Dio del mare. Tutto questo gli sembrò un segno del destino, anche quando incontrò una danese di Copenaghen, che come lui aveva scelto di vivere a Catania.

La giovane donna arriva con la sua Uno, gli fa un cenno con la mano, e lui, sorridendo, si avvicina e le apre lo sportello. Franz la aiuta ad aprire il cofano e le porta le borse fino al lido, mentre lei tiene per mano i due bambini. 1.000 per il posteggio e un’opera di carità.

Per alcuni mesi mendicò in via Etnea, in prossimità del Central Palace. Ma lì durò poco, abbandonò i suoi cani randagi e si diresse al faro, dove inizia la grande spiaggia della Plaia. Era il mese di giugno, i primi abusivi occuparono i posti più strategici, da dove avrebbero ricavato la fonte di guadagno illecita, più “lecita” di questa città. Lui, tedesco, ebbe un’illuminazione da napoletano, e da quel giorno non lasciò più quel tratto di strada compreso tra il centro ODA e la piscina comunale.

Una Mercedes si ferma, quattro giovani uomini scendono e lo guardano attentamente. Gli chiedono la sua provenienza e quando Franz risponde “Germania” uno di loro gli molla un ceffone sulla guancia e gli ricorda, sarcasticamente, che un giorno i suoi connazionali avevano pestato a sangue il fratello, emigrato a Monaco. Franz rimane impassibile con gli occhi azzurri spiritati.

Il giorno che incontrò la danese la invitò a scambiare quattro chiacchiere con lui, ma quella, come se non l’avesse sentito, proseguì la sua marcia con la bottiglia d’acqua in mano.

ALLA FERMATA DEGLI AUTOBUS

La stazione degli autobus della Sais è come un piccolo deserto nella città. All’arrivo dei mezzi si solleva un polverone e sembra di essere tra mulattiere di campagna negli anni quaranta. Studentesse universitarie si dirigono, con borse e valigie, verso il centro, altre aspettano i bus urbani alle fermate.

Il giovane uomo si recava tutte le mattine al capolinea, ad attendere il pullman che proveniva da Taormina. Era questo il suo lavoro, ritirare ritagli di giornale con articoli di spettacolo che avrebbe dovuto consegnare alla televisione. Ogni giorno, alle 10, l’autista gli porgeva il suo pacco, mentre il sole cocente di luglio batteva implacabile. Era laureato in lettere, sognava di fare il giornalista, ma intanto si accontentava di leggere le recensioni degli altri.

I conducenti, appena arrivati, si rifugiano nel bar all’angolo, a bere latte di mandorla e birra. Commentano i corpi delle ragazze, le loro andature in abiti leggeri, che fanno intravedere forme generose. Macinano asfalto cocente ogni giorno, e quando giunge il momento di ripartire li si vede tristi e con occhiali scuri.

Il giovane amava la musica jazz. Una sera aveva assistito a un concerto dei Weather Report, e da quel momento aveva deciso che gli sarebbe piaciuto raccontare le emozioni che si provano ad una esecuzione di musica di classe, come lui amava definirla. Quando si imbatteva in un articolo di critica musicale, lui soffriva nel leggere imperfezioni stilistiche o cadute di tono, e con la mente redarguiva lo sprovveduto giornalista.

Coloro che attendono parenti ed amici alla stazione dei bus sembrano delle anime dannate in attesa di giudizio. Cercano una striscia d’ombra tra i furgoni di ristorazione o qualche mezzo posteggiato. Quando ne arriva uno sono tutti lì a tentare di leggere la provenienza e a scorgere i visi conosciuti oltre i finestrini. Adesso sono tutti sudati , con le scarpe bianche di polvere.

Un sabato mattina una ragazza dal viso angelico gli chiese informazioni sul pullman proveniente da Taormina. Cominciarono a discutere, noncuranti del sole, dei loro progetti, dei loro studi, delle loro storie. La corriera arrivò con mezz’ora di ritardo, non vi era nè il pacco per lui nè l’uomo che lei aspettava. Le offrì un passaggio in macchina, ma la mora non aveva un posto dove andare, e si ritrovarono a passeggiare per il viale Africa. Giunsero in Piazza Europa e si scambiarono un intenso bacio. La visione del mare li eccitò, lui sembrò a lei un angelo poeta, lei a lui una dea marina. Ritornarono, avvinghiati di passione, verso il capolinea dei bus.

Il giovane autista proveniente da Mineo spegne il motore. La studentessa, sorridendo, imbraccia il suo zaino. Vanno a bere un caffè freddo al bar, poi escono ed entrano nel vicino hotel, mentre lui si toglie gli occhiali e le sorride. Il portiere li riceve, mentre dalle scale un ragazzo e una ragazza scendono lentamente.

DOMENICA AI LIDI

La famiglia lasciò l’appartamento alle 8,30 di una domenica di agosto. Nella casa, ormai vuota, alcuni giocattoli sparsi sul pavimento dello studio del padre, nel lungo corridoio altri pupazzi di gomma a terra ed una cesta piena di vestiti in un banco da stiro. Nella camera da letto lenzuola sfatte impregnate di amore, il cd della colonna sonora del “Postino” sopra la custodia ed un moscone impazzito davanti al grande specchio. Nella stanza dei bambini la finestra aperta, dove arrivano le voci stridule delle vicine e quella insistente del merlo indiano. Sul pavimento ancora giocattoli ammassati accanto ad un grande contenitore di legno riverso.

Prima di giungere al faro iniziò la lunga fila di gitanti della domenica. L’uomo si fermò dinanzi ad altre auto, dove volti stanchi ed assonnati, come il suo, attendevano, con le mani nervose sul volante, di ripartire. Si spostavano di due e tre metri e poi riprendevano la stessa posizione annoiata di prima.

Nella stanza da pranzo due tazze di latte semipiene, inzuppate di cereali, sul grande tavolo di vetro. Più in là le sagome di Woody e Buzz lightyear, e altri personaggi minori di “Toy Story”, la finestra sul cortile interno, quasi come il titolo di un grande film, e ancora vociare, con inflessioni baresi, delle vicine, che quando si accorgono che l’appartamento di sotto è vuoto diventano più rumorose.

Quando le auto giunsero alla rotonda del faro fu una liberazione per tutti i passeggeri. Cominciarono a svincolare quando si immisero sul viale Kennedy, tra capannelli di persone negli spacci per articoli da mare e autoradio accese a tutto volume. L’utilitaria bianca e scassata, dopo trecento metri, arrivò a destinazione. L’uomo trovò a destra, proprio di fronte allo stabilimento, un posto per l’auto e ci si infilò. I bambini scesero felici ed esaltati, mentre la giovane donna porse le 1.000 al posteggiatore straniero.

Nel cortile interno un lungo tubo di gomma, ancora gocciolante. Quattro piante grasse, in fila su un lato della ringhiera, e sotto, nel deposito abbandonato, i topi indisturbati alla ricerca avida di cibo.

GITANI AL PORTO

Alle spalle del porto, dove inizia la lunga spiaggia di sabbia, viveva una comunità di gitani proveniente dal sud della Francia. Le tre roulottes erano sistemate una accanto all’altra, in prossimità di un piccolo corso d’acqua maleodorante. I bambini, dalla carnagione scura, scavavano buche, mentre gli adulti, attorno ad un tavolo, giocavano a carte.

La danese, dopo aver tanto camminato, si ferma all’accampamento. Le donne sono diffidenti, la ricevono freddamente, poi quando si accorgono che ha la febbre la invitano a sedersi in uno delle sdraio. La ragazza, con un italiano imperfetto, chiede se è possibile essere ospitata per una sola notte, e quelle, dopo essersi guardate negli occhi, accettano.

Gli uomini e i bambini uscirono dalle roulottes molto presto, si diressero alla fine del viale Africa, vicino piazza Europa, e cominciarono a lavare i primi vetri. Furono accolti da qualche imprecazione e da qualche moneta da 500 lire. Come inizio bastò.

Alla danese offrono due aspirine effervescenti, lei beve lentamente e ringrazia con un gesto degli occhi, poi, quando è ormai buio, la accompagnano al suo letto, dove dormono le altre due ragazze.

Prima di ritornare al Porto si soffermarono a mendicare sotto i portici di corso Sicilia, dopo un’ora entrarono nel supermercato e acquistarono alcune bottiglie d’acqua. Quando oltrepassarono il secondo ingresso portuale videro molti giovani che si accalcavano nella fretta di entrare dentro, e più in là videro dei manifesti. Con i gesti, i più giovani fecero capire agli adulti che si trattava di un concerto rock, e uno di loro esclamò: “Skunk Anansie”.

E’ giorno, gli uomini aspettano i ragazzini e poi si avviano sulla strada, più indietro la danese, sulle spalle uno scialle colorato e un sorriso di gratitudine stampato sul volto.

NOTTE A GIARDINI

Partirono con due grosse moto, Suzuki 400 FWS a 16 valvole. Oltrepassarono il casello, furono investiti dall’odore di zagara, e quando videro la prima stazione di servizio, prima di Acireale, decisero di fermarsi. Due caffè, due sigarette e via…prima di raggiungere Giarre toccarono i 160, e per un attimo Marco fu assalito dal panico.

E’ una bolgia, “Let’s dance” di David Bowie martella sulle orecchie…le gambe nude e abbronzate si intrecciano in un gioco di simmetrie e luci fosforescenti…il Dj sembra agonizzare quando annuncia con una voce ansimante “Just another night” di Mick Jagger. Svedesi ed olandesi fanno ondeggiare i seni, tra gli sguardi di bruni messinesi e catanesi. Il barman sbatte al ritmo di movimenti latino americani intrugli alcolici al gusto d’ananas, i bagni sono pieni di ragazze vacillanti in canottiera.

Quando entrarono a Giardini Naxos una fila infinita di auto targate Milano e Genova si muoveva a passo di sincopato lento, prima di svoltare nella strada delle discoteche. Scaricarono ruggiti di acceleratore e si tolsero i caschi, le loro lunghe chiome profumavano di “Campus”, sgradevole essenza alla mela verde.

Tre ragazzi vestiti di bianco attorniano una tedesca somigliante ad Ute Lemper, le si avvicinano sempre di più, fino a simulare un volgare coito consumato in fretta…una napoletana vomita sul lavandino…un ubriaco con un forte accento viene cacciato dai buttafuori…l’essenza di hascisc si insinua tra le palme e nelle narici dei presenti.

Entrarono in discoteca, si muovevano con passi falsi di modelli Vogue, compiaciuti guardarono l’orologio, le 23, l’ora giusta. Si sedettero su un divano, di fronte ad una coppia incazzata di finlandesi, vestiti male e con la pelle arrostita color aragosta. Marco adocchiò “Ute Lemper”, notò i tre disturbatori che le ronzavano attorno come mosconi, e soprattutto fu colpito dall’impassibile noncuranza di lei. Si fece avanti, e con un inglese sicuro, la invitò a bere qualcosa. La bionda con lo sguardo di ghiaccio accettò, e i tre, di colpo, come se gli fosse stata staccata la spina, si bloccarono.

Adesso la folla è straripante, il sudore si mischia a profumi femminili eccitanti, e come la ciliegina sulla torta le prime note di “Relax” dei “Frankie goes to Hollywood” irrompono prepotentemente. I tentativi di rissa vengono subito sedati da gorilla, i cani da guardia del piacere…alcune esibiscono, come un invito, vertiginosi tanga sotto gli abiti trasparenti…i loro movimenti sono tribali.

Marco e la tedesca bevvero due gin tonic, lui le strinse la mano e lei, con gli occhi ironici, gli accarezzò lentamente la schiena. Poi si buttarono nella marea umana e più volte i loro sensi si annebbiarono.

Sono le tre e mezza del mattino, i bagni sembrano campi di battaglia abbandonati…molti cominciano a lasciare il locale, gruppi di gay vociano rumorosamente…i cingalesi puliscono i tavoli e svuotano i posacenere. Il dj si riserva la chicca per la notte, “Born in Usa” del “Boss”.

Una grossa moto sfrecciò alle prime luci dell’alba. L’autostrada sembrava una visione surreale, le mani di lei, con le dita lunghe, gli massaggiavano il ventre, lui le sfiorò più volte la coscia sinistra.

MOTEL AGIP

Suona il citofono, prende la cornetta e risponde annoiato. Sono loro, Santo e Paolo, gli dicono di scendere subito, c’è una sorpresa…l’ascensore è bloccato, fa le scale di corsa e si ritrova davanti al portone le facce spiritate dei due amici. Senza parlare gli porgono tre pillolette, lui li guarda meravigliato e poi esclama: “Le Play gin!”. Le inghiotte tutte, Santo gli da una pacca sulla spalla e poi entrano in macchina.

Erano le 22.00. Alla guardiola gli ultimi ritardatari schiamazzavano, giù nella strada il cane del carrozziere abbaiava verso richiami lontani, mentre sopraggiunse il camion dell’immondizia. Nessuno si accorse del dileguarsi lento della Reanault4.

L’anfetamina comincia a fare effetto. In macchina discutono di vestiti, degli ultimi blue jeans che Marco ha acquistato da “American Stracci”. Santo sghignazza rivolto verso Paolo, gli indica il suo nuovo taglio di capelli alla Fonzie. Oltrepassano il “Fortino”, poi scendono per via Vittorio Emanuele mentre incrociano una gazzella dei Carabinieri.

Via Etnea era deserta, alcuni disperati aspettavano gli autobus alle fermate della Collegiata e di Piazza Stesicoro, mentre nuove orde di giovani in auto sfrecciavano velocemente con sottofondi di volgare musica napoletana. La vecchia macchina francese transitò a passo d’uomo.

Rimangono senza benzina nei pressi del Duomo. Marco e Paolo non si perdono d’animo, mentre Santo è sotto l’elefante che discute eccitato con un netturbino, loro due, correndo, si dirigono verso il distributore di Ognina, distante 5 Km. Ridono e gesticolano, mentre la loro andatura è scomposta.

Non vi erano bancarelle a Piazza del Carmelo, così diversa dal caos del giorno, con gli ambulanti che gridano come forsennati, come se facessero a gara con quelli lontani della Pescheria. I cani rovistavano tra i rifiuti, la chiesa, illuminata, era splendida. I due passarono scansando due bottiglie vuote di Fanta.

Santo, con la sua dialettica “drogata”, incanta lo spazzino. Discutono di Piano regolatore, di borseggiatori sui bus, di pesci a buon mercato…di teste mozzate di tonni sui banchi di legno e quella, umana, ritrovata sotto la statua di Garibaldi. Poi familiarizzano e si abbracciano, dalla bocca dell’uomo un fetore insopportabile di vino.

Arrivano al Motel, hanno ancora la forza di parlare, di ordinare sigarette, due caffè, chewing gum. Si girano a guardare una signora appariscente in minigonna, accanto c’è il suo uomo, vestito di nero e con un bellissimo orologio al polso. Poi Marco si sente male, la lingua tende a cambiare rotta ed a ficcarsi dentro la gola. Camminano per un pò nel retro del bar, i conati di vomito abortiscono in extremis…và meglio, decidono di riprendere la folle corsa. Alle Tre e trenta del mattino si lasciano alle spalle il Motel Agip.

CITTA’

ROMA

1 gennaio 2000, ore 11,20. E’ da almeno dieci anni che rompono il cazzo con questo fottuto terzo millennio. E ora che ci siamo mi ritrovo da solo, in questa città esageratamente grande, con un cielo nero di merda. Butto nel cestino il “Corriere”, mi guardo attorno, solo palazzi immobili e autobus frenetici. Non è cambiato nulla. Ancora e sempre stranieri, con facce bianche e nere, puttane… bianche e nere, barboni… lasciamo perdere! Mi incuriosisce solo un ubriaco che danza sul marciapiede e ad ogni passante dice: “Avete voluto il 2000? e mò la prenderete nel culo!”. Sì, c’era povertà, la si respirava ovunque, e io del resto chi ero, se non un poveraccio che era arrivato con un treno proveniente dal sud? Povero e disperato, ma non ero solo.

Ore 12,00. Sono dentro un bar, ascolto avventori che parlano di argomenti disparati, chi della Roma, chi della Lazio, del governo… e della polizia… e ancora tasse, negri, tette, soldi,radio, televisione… italiana, straniera… stranieri, curdi, albanesi, senegalesi e mauriziani… romani, milanesi e preti.

Ore 13,00. Entrano tre signore impellicciate, no, sono dei trans ancora truccati per la notte. Mostrano il seno con il tatuaggio fresco, la scritta: FIGLI DEL 2000. Non mi importa un cazzo di loro, addento il mio panino, guardo il banconista allegro, ma poi allegro perchè se passerà il resto della sua vita qua dentro? Esco fuori.

Ore 14,00. Ed eccomi a piazza di Spagna! Per un fottuto meridionale sarà sempre la stessa. Giovani che cantano, con le chitarre in mano, canzoni di Dylan, del Papa, di Bersani e Che Guevara. Più in là giapponesi, neozelandesi e australiani, russi, africani ed americani. Mi siedo. Intono un canto a squarciagola, tanto da infastidire persino alcuni profughi curdi, anche loro in vacanza.

Ore 15,22 e trenta secondi. Sono sdraiato su una collinetta di villa Borghese, da tre minuti ad osservare le lancette del mio orologio, perfetta imitazione Rolex. Due ragazzini cominciano a scopare, qualche metro più in là, noncuranti del mio sguardo eccitato. Lei geme, si accorge di me (se ne era accorta prima!), io vado via, di corsa… con lo sguardo soddisfatto di lui che mi lancia un “An’vedi questo!”.

Ore 16,30. Mi intrufolo in un cinema a vedere un film di qualche anno fa, dalle parti di piazza Barberini, per fuggire il freddo. Michael Collins, si chiama così questo eroe irlandese che ogni tanto intravedo affacciandomi dal cappotto.

Ore 18,17 e cinque secondi. Quella patacca del mio orologio ha deciso di fermarsi, lo ausculto e poi lo lancio in un cassonetto dell’immondizia.

Ore 21.00, orologio di un negozio di via Veneto. Cammino di fretta, il gelo mi attanaglia e mi distrae dall’osservare i camerieri immobili dei ristoranti. Poi mi si presentano un’infinità di agenzie di viaggi, con le scritte delle compagnie aeree, Air Lingus, Bea, Egyptus, Philippines Airlines… tutte chiuse con gigantografie di paesaggi, illuminate all’interno.

Ore 22,00, orologio del 22° binario, stazione Termini. Un uomo gesticola animatamente parlando al telefonino. Evita con fastidio i controllori, gli uomini dei panini e i mendicanti. Poi si ferma un attimo, si osserva la suola della scarpa destra e sale sul treno.

NIZZA

Ho trovato una stanza all’Hotel Interlaken, di fronte alla stazione. Il portiere è un reduce della seconda guerra, appena legge il mio documento esclama: “Ah italienne!”, e mi fa capire con gesti plateali che all’inizio del conflitto mondiale i miei connazionali si permisero di bombardare la costa azzurra. Mi fa sorridere e mi consegna la chiave della stanza 95. Prima di entrare in camera mi introduco nella toilette che sta sul corridoio. Defeco con difficoltà, mi succede ogni volta che mi trovo in terra straniera, o sarà il forte odore di croissant. Per prevenire la solita lancinante emicrania inghiotto 30 gocce di Novalgina.

Si distese sul letto e dalla finestra aperta potè vedere, nel palazzo di fronte, una ragazza affacciata, con i capelli corti, che lo osservava. Andò a chiudere le persiane, aveva ancora mal di testa. Forse l’aveva scrutato mentre era stato alcuni minuti davanti allo specchio, o quando aveva sistemato i bagagli. Una cosa era certa, quella donna aveva sorriso.

Il vecchio della reception puzza di tabacco di pipa, con gli occhi spiritati mi indica la direzione del mare. Rue Verdi, rue Rossini, rue Cherubini, mi sorprendono questi nomi italiani in terra di Francia. Un pò meno il fatto di vedere tante signore accompagnate da cani di piccola taglia. Giungo al lungomare, mi siedo su una di quelle sedie di ferro che dominano la spiaggia, non so se guardare indietro, dove sorgono eleganti palazzi, o soffermarmi sull’orizzonte.

Quando rientrò in albergo il mal di testa era svanito. La ragazza era sempre lì, questa volta danzava al suono di ballate rock, ma quando si accorse di lui ritornò sorridente alla finestra. Adesso anche lui la puntava, insistentemente, si fece spavaldo e la invitò a gesti a venire da lui. Era il richiamo animalesco del sesso, non vi erano dubbi, e anche loro non furono sottratti a questa legge.

E’ inglese, mi dice che si chiama Pauline e viene da Birmingham. Poi non ho saputo altro, adesso che mi succhia l’uccello immagino di rivederla ancora una volta danzante, sola, le ballate rock, nella sua camera d’albergo.

VIENNA

Non ho mai capito se questo mio amico è una checca. Di solito mi parla di donne e mi dice che quando ne trova una troppo intraprendente non gli si rizza più. Non è possibile. Siamo arrivati da alcune ore a Vienna, vaghiamo come matti a cercare qualche panchina confortevole del Prater su cui scaricare i nostri sacchi a pelo puzzolenti. La serata è mite, simile a quella di un luglio nostrano, e questo ci conforta. Ne troviamo due nei pressi di una fontana circolare, ci auguriamo la buona notte e domani si vedrà.

La vera checca apparì. Sfolgorante come Gary Glitter nella notte cominciò a carezzare il volto del ragazzo bruno, che dormiva beatamente con un sorriso da idiota stampato sulle labbra. L’altro se ne accorse e cercò di spaventare l’ “austroungarica”, ma “lei”, con una vocina dolce, sibilò suoni teutonici verso l’orecchio del moretto. L’aveva riconosciuto. Adesso ne era certo, due checche. Alla fine l’astronauta se ne andò. Un’altra volta buona notte e domani si vedrà.

All’improvviso siamo svegliati da una pioggia violenta. Apro gli occhi, si tratta degli annaffiatoi automatici per il giardino. Prima ridiamo, poi ci incazziamo, nel parco l’apoteosi di giochi d’acqua. Fradici raggiungiamo altre due panchine e questa volta ci addormentiamo veramente.

Erano le tre del mattino. Alcuni punk con i capelli variopinti, quattro ragazzi e una ragazza, tornavano da una scorribanda alcolica nei pubs di Kantner Strasse. Si accorsero dei due italici fanciulli, intonarono delle canzoni sguaiate e si fermarono a pisciare. Anche la ragazza, con il culo nudo, urinò come fanno i maschi. Poi si avvicinarono agli italiani, il capo banda svegliò il biondo e gli fece capire di seguirli, destò l’amico e lasciarono il parco.

Seguiamo questi disperati per ore, ogni tanto quello con la cresta rossa mi si avvicina e mi dice che manca poco, poi potremo finalmente dormire. Attraversiamo strade tristi e periferie suburbane che a Vienna non avrei mai immaginato. Arriviamo in un grande palazzo del primo Novecento, saliamo due piani ed eccoci finalmente a casa! Centro sociale, ufficio igiene, stanza per studenti, non riesco a decifrare, tra la puzza di incenso e di alcool, l’atmosfera di quell’appartamento. Il “gallo” rosso ci indica un letto a castello e finalmente si dorme.

Il biondo non riuscì a prendere sonno. Nella stanza accanto, a quanto pareva, i quattro punks si facevano la punkessa o forse era il contrario. Tra gemiti e risate riaprì gli occhi a mezzogiorno, mentre un profumo di caffè invase l’ambiente, ma per tutte le ore che era rimasto a letto non aveva staccato, neanche per un attimo, la mano dal portafogli. Vienna era ancora tutta da scoprire.

PARIGI

Un mio amico mi disse che a Port Dauphine era possibile rimorchiare qualche sventola. Una di quelle bionde che girano in Mercedes o Jaguar e annoiate, il sabato sera, si sarebbero fatte sbattere da italiani e magrebini. Mi suggeriva di fare il puttano, praticamente il gigolò per donne ricche e coppie viziose.

Ho affittato una camera a Cadet, 400 franchi compresa la colazione. Appena il tempo di radermi e mi ritrovo giù, ad annusare gli odori di paella che provengono dal ristorante spagnolo. La fame mi vince ed entro dentro, tra il suono di chitarre gitane e la danza fluttuosa di due ballerine. Ordino paella catalana e cerveza, la proprietaria, Mercedes, mi fissa spavalda. Io la ignoro, mangio gamberi, cozze e pollo, di riso ne lascio un pò, ingurgito la birra fredda ed a un tratto mi colpiscono le prime note di “Perfidia”. A tratti mi commuovo e la mia espressione diventa languida. Saluto Mercedes ed esco.

Io conoscevo solo Strasbourg Saint Denis, dove si smercia il sesso a buon mercato, e Pigalle, centro del sesso turistico e del porno show. Erano tre anni che non vedevo Parigi, adesso la ritrovavo noiosa, scontata, uguale a Londra e a San Pietroburgo. Ma ogni volta vi mettevo piede, e qualunque fosse il motivo della mia visita, dovevo necessariamente farmi una scopata a pagamento. Dunque la novità di essere pagato come stallone mi allettava.

Sono sul metro, mi dirigo là, a Port Dauphine. E’ l’ultima fermata, siamo in pochi, nessuno canta o rompe i coglioni. Sempre le stesse facce, nere, gialle, avana, bianche, a pois… la chiamano la società multirazziale. Sono più vecchio e me ne accorgo. Non mi emoziona più niente.

Una volta, in un albergo della Gare du Nord, mi fregarono il portafogli. La mattina successiva riempii di pedate la donna delle pulizie, guaiva in filippino, poi fu il turno del direttore che mi denunciò e mi rimandò in Italia. Fu quel giorno che lasciai l’impronta delle mie nocche su una porta di un gabinetto pubblico.

Sul viale principale di Port Dauphine vi sono alcuni yankies muscolosi, più in là due algerini. All’uscita della metropolitana una Mercedes bianca, con a bordo una ragazza bionda, che dopo essere passata tre volte, finalmente si ferma ed apre lo sportello. L’italiano la fissa un attimo e poi scende le scale della Metro.

SIENA

Sono ai Banchi di Sotto. Addento una tramezzino ai funghi, mentre mi godo il passeggio degli studenti. Ai Banchi di Sopra vengo travolto da un folto gruppo di sostenitori del Nibbio che cantano ed inneggiano alla vittoria. Ora Piazza del Campo Š deserta.

Erano le 11.00. Si diresse agli interni del vecchio ospedale pediatrico, incontrò Fois che lo salutò distrattamente. Salì le scale, la giovane moglie lo attendeva con il bambino in braccio, era stanca con delle occhiaie profonde. Baciò lei ed il bambino ed insieme entrarono in corsia. I piccoli pazienti epilettici erano lì, giocavano con le costruzioni. Appena li videro entrare si immobilizzarono, avevano gli occhi lucidi.

E’ sera. Folate di vento mi fanno rabbrividire, mi soffermo su un grosso titolo dell’edizione locale della “Nazione”: “Ragazza travolta da un bus”. Non so se andare al cinema o ritirarmi all’hotel “Tre Donzelle”, non prima però di mangiare il solito cornetto “Sammontana”. Incontro la dottoressa di Montepulciano, la bella anestesista di questa mattina, dall’altro lato della strada mi saluta alzando il braccio. Vado in albergo.

Era proprio una brutta gatta da pelare la malattia del figlio, con un nome esotico da colonia francese, “sindrome di Guillame Barrè. Il piccolo non aveva reagito alla prima dose di immunoglobulina, si sperava nella seconda. Gli arti erano bloccati e doloranti. Non gli rimaneva che aspettare gli eventi, sperando nella buona sorte e nel buon Dio.

Questa è una città magica, in tutti i vicoli si respira l’aria della campagna toscana, con gli odori di vino e rami bruciati. Ma non riesco a sentirla familiare, immagino di ritornarci, quando le cose si saranno messe a posto, con i miei figli e mia moglie. Il dialetto della gente mi entra come se avessi una cuffia nelle orecchie. Poi al centro di Piazza del Campo mi blocco, ed osservo come se avessi una telecamera, le facciate delle costruzioni.

Una mattina di novembre lasciarono l’ospedale. Sorridevano, anche il bimbo ne provò uno, camminarono per un pò a piedi soffermandosi a guardare anche le vetrine della salumeria. Ne annusarono gli odori, poi entrarono in taxi, e stretti nel sedile di dietro lasciarono il borgo.

BARCELLONA

Ed eccomi a Piazza della Catalogna, pieno di desideri e frenetico di scoprire nuove emozioni. Raggiungo la “Rambla”, affollata di venditori di pappagallini, barboni e spacciatori di droga. Uno mi ferma e mi propone di comprare un pennuto e 50 grammi di hascish. Lo evito e continuo a marciare velocemente tra odori di arrosti e paella. Entro in un bar invaso di fumo e ordino una birra, giro lo sguardo e vedo un corpo statuario, abbronzato, due occhi neri mi fissano. Mi avvicino, la ragazza viene dalle Canarie, ha vent’anni e tanta voglia di farsi sbattere. E’ bellissima, rimango sorpreso quando mi dice la sua tariffa di puttana, indugio due minuti e dico di sì.

Saliamo al primo piano di uno squallido albergo ad ore. Do la mancia all’inserviente ed entriamo in camera, la spoglio io, velocemente, emergono due tette all’insù ed eccitanti, un culo sodo e una fica contornata da riccioli fitti e neri. Sono tre settimane che non fotto, e il mio cazzo è carico di sperma. Quando è interamente nuda non so se prenderla di dietro o davanti, tanto sono belle le sue forme. Poi le guardo le labbra umide e l’uccello ha un sussulto di tremore, mi tolgo le mutande e me lo tengo in mano come un fucile con il colpo in canna.

Le lecco il culo, i capezzoli, il collo, le cosce, le orecchie… i polpacci, i gomiti, le caviglie, il naso… i piedi. La fisso un attimo e penso che è arrivato il suo turno… le stringo i capelli e avvicino la sua bocca al mio fucile. Quando comincia a giocare con le labbra e con la lingua grido di rabbia e di piacere, maledico il potere e la seduzione di questa ancella puttana. Scarico lo sperma sorprendendo anche lei, per la mia astinenza di maschio finalmente esplosa copiosa e liberata.

L’avevo pagata e me ne tornavo ubriaco sulla strada. Non mi accorgevo dei richiami dei mercanti, nè degli uccelli rumorosi ed infelici. Tutto fremeva e continuava, come tutti i giorni, tranne per me che continuavo a pensare alla fantastica puttana canarina, alla sua bocca, alle sue labbra, al suo sesso che non avevo avuto…

SPERANZE

L’ATTESA

Per dieci anni ho rimosso il fatto che potenzialmente potrei essere uno scrittore. Poi, d’improvviso, la depressione, e rieccomi a dannarmi e a godere sulla pagina bianca, ad inventare storie disperate scandite da lunghe giornate e lunghe notti. Orgasmo dell’immaginazione! La musica degli anni 80 rispolvera fantasmi del passato e la mia immagine inedita viene fuori.

Quando scoprii John Fante ho pianto di commozione ed ammirazione. Mi sono inchinato dinanzi alle copertine di “Ad Ovest di Roma” e de “La confraternita del Chianti”, e ridevo e scuotevo il capo. Diavolo di un Fante! Lo sentivo fratello, figlio, padre, pensavo di profanare la sua tomba e di ritrovarlo con la sua faccia di indolente, solcata dalle occhiaie, a sorridermi compiaciuto…

Uno scrittore noto mi dice che sono un autore importante, che ho uno stile forte e riconoscibile (basta solo questo per essere un narratore di razza?), ed io non sto più nella pelle. Faccio lunghe passeggiate con l’andatura altera, sognante, eterea, penso al mio stile e mi chiedo: come mi è venuto fuori? Dò la colpa a Cèline, poi a Tondelli… a Steinbeck, a Moravia, a Lawrence, a Berto… non ci capisco più niente, adesso ci si mette pure quel dannato di Fante. La colpa è di quella stronza che mi ha fatto soffrire d’amore, anzi del mio datore di lavoro che mi ha licenziato.

Louis Ferdinand mi fece star male. Non riuscivo a dormire la notte, lo vedevo aggirarsi nei pressi della linea Maginot, tra bocche sanguinanti e teschi aperti, lui, il sopravvissuto. Era l’unico sogno al termine della notte.

Inizia l’attesa. I lettori di una grande casa editrice leggeranno i miei racconti, uno di loro mi dice che mi devo armare di buona pazienza. Io non ho più pazienza, penso a Carver:”Sono diventato scrittore perchè ho sempre avuto una vita di merda… dovevo pensare al latte per i bambini”. Non posso più aspettare, ho appena compiuto 37 anni! Non ho ancora capito cosa farò da grande.

Leggevo e pensavo di pubblicare, quanto tempo sarebbe passato ancora? I miei dattiloscritti tra la carta da macero nei depositi delle case editrici. Ed io aspettavo e mi distraevo, poi non ce la facevo più e telefonavo… e la buona pazienza andava a farsi fottere.

L’AMORE

Non pensavo altro che a lei. I suoi capelli lunghi mossi dal vento, le mani affusolate, gli occhi umidi, le gambe dritte e i seni sporgenti. Era lontana e non potevo farci niente, se non evocarla con musiche e profumi, indumenti e fogli scarabocchiati che lei aveva lasciato nella mia stanza.

Si amarono con incoscienza, con la passione degli adolescenti che vogliono scoprire il dolore ed il piacere. Quando si tenevano per mano il tempo perdeva le sue coordinate, non guardavano i passanti frettolosi, le donne sposate con la spesa in mano, i gelatai agli angoli delle strade, e neanche i colombi disturbati dai bus.

Era bello e peccaminoso. Fare all’amore sulle spiagge, in auto, nella toilette dei treni, nelle sale d’aspetto delle stazioni deserte, ovunque. E poi essere adulato, corteggiato, deriso, compreso, esaltato, insultato, posseduto, venerato, baciato, succhiato… odiato.

Gli aveva raccontato la sua storia. La ragazza indifesa ed infelice che voleva andarsene a vivere lontano, con lui, lontano al nord, al sud, sui monti, al mare, in una catapecchia, in una villa con piscina. Lui era responsabile di tutto, l’oggetto del desiderio e dell’amore, che d’improvviso aveva cambiato il destino di lei.

Sarebbe ritornata un’altra volta da me. Più indurita e maliziosa, capace di farmi insospettire per la sua nuova maestria nel fare sesso. Invece era solo amore. Ma questa volta i patti cambiarono e fu lei ad esigere ed a sentirsi corteggiata, adulata, derisa, succhiata… odiata. Ed io cominciavo a sbandare e a diventare adulto, era adulta anche lei, la società degli uomini ci attraeva con spot e spettacoli. E pensammo che la priorità del nostro rapporto rispetto ad altre cose stava per vacillare.

Una sera andarono in una discoteca. Lei fissò un altro. Lui fissò lei e poi l’altro, poi andò al bar a bersi un wisky e si concentrò sulla musica, sui movimenti sinuosi di lei, che sorrise e lo invitò a raggiungerla.

LA SOLITUDINE

Non aveva più amici. Se ne era accorto il giorno che la moglie lo aveva lasciato, e così era andato a trovare il vecchio compagno d’infanzia. Era diverso, i capelli grigi, il corpo appesantito, un catarro insistente e fastidioso. Gli parlò della sua storia ma l’altro non capiva, stava ad ascoltarlo distratto, poi all’improvviso gli disse: “Un anno fa ho tentato il suicidio”. Era da cinque anni che non si vedevano, adesso erano due estranei, uno con la voglia matta di farla finita e l’altro abbandonato dalla moglie.

Gli guardo gli occhi, hanno una patina di giallo sulle cornee. Quando accende la sigaretta gli cominciano a tremare le dita, beve svogliatamente un bicchiere d’acqua, poi mi indica i figli ritratti in una foto estiva, il più grande è la sua fotocopia. Non ha niente da dirmi, non ascolta più musica, non gioca più a carte, non tradisce più la moglie, solo dormire, fumare, lavorare, pagare, guidare, camminare, piangere, tentare il suicidio.

Lasciò la casa dell’amico nel pomeriggio, si fermò in una tabaccheria e comprò tabacco per pipa, anche se quando lo fumava gli bruciavano le labbra. Ripensò a Carlo, di quando erano ventenni e si guardavano continuamente i profili davanti allo specchio. Di quando si bombardavano di musica degli Stones e imitavano le movenze di Mick Jagger.

E adesso dove vado, con chi parlo, con chi rido, che musica ascolto, che film vedo… Ho un dolore ai fianchi, la barba lunga, una venuzza arrossata sotto le palpebre. Ho quarant’anni e faccio pena, senza moglie, senza un amico che mi ascolti, non ho voglia di ascoltare nessuno.

Rientrò a casa del padre quando ormai erano le otto. Chiuso nella stanza riprese le vecchie lettere e scovò una cartolina che lo scosse e lo fece sorridere: “Ciao Pollo come stai? Noi siamo a Vulcano e ci divertiamo da matti, le tedesche sono le più boneee! Saluti a te e a Fabienne. Carlo e Paolo”.

LA POVERTA’

Sono più povero di un barbone, di quelli che se ne stanno seduti sui marciapiedi ad elemosinare un panino o una sigaretta. Io ho le tasse da pagare, la luce, l’acqua, il telefono, le banche, l’iva, le multe ed i miei errori. Faccio i conti, ogni giorno, con la morte, i figli, la moglie… la depressione, la gioventù che mi abbandona, le donne che ho avuto, mia madre che è morta e con Dio.

E se ne andò in prossimità del mare. Denudatosi si immerse, si sporcò con la sabbia, strappò le foto, si inzuppò i calzoni di acqua salata e si rivestì. Pensò a una grande città, Parigi, i suoi viali, la sua figura protetta da un cappotto di cashmere, un treno deserto e puzzolente e lui l’unico passeggero del Catania-Roma.

E come potrei essere felice se fossi davvero un mendicante, un viandante puttaniere che si aggira per le strade di Barcellona, un ragazzo sbandato con il sacco a pelo che dorme nei giardini di Vienna, un rockettaro patetico che è andato fino a Monaco di Baviera per vedere Dylan. Cancellare dalla mente moglie e figli, invece mi sono imbattuto nei romanzi di Fante e Carver e mi ricordo che i bambini hanno bisogno del latte, ogni giorno, e alla fine sarò ripagato per la mia vita di merda.

Immaginò di trascorrere l’ultimo dell’anno nella capitale, tra viados e drogati, di passare poi la notte nella sala d’aspetto della stazione, di essere cacciato all’alba dai poliziotti. Non fece niente di tutto questo, si rivestì, entrò in macchina e si fermò in un motel per bere un caffè.

Apro la porta di casa, il piccolo mi viene incontro con un panino in mano, il più grande mi bacia sulla guancia. Percorro il corridoio, sento il profumo di melanzane fritte che proviene dalla cucina, evito un orso di pelouche che mi ostacola il passo… faccio appena in tempo ad incrociare lo sguardo pensieroso di mia moglie che mi saluta con un sorriso, ha le mani sotto il rubinetto… mentre scorre l’acqua fredda, accendo il televisore, appoggio il litro di latte sul tavolo, poi ci ripenso e lo metto in frigorifero.

IL SOGNO

Ho sognato una ragazza romana che conobbi vent’anni fa. Abitava al viale Trastevere, era riccia e di origini siciliane, con il volto triste. Ho rivisto l’appartamento dei suoi, semplice ed austero, come quelli dei piccoli borghesi all’antica che hanno sgobbato tutta una vita.

Sono sveglio e ancora preso dal suo “fantasma”, la ragazzina che aveva frequentato il liceo “Visconti” negli anni di piombo. Avrà più o meno la mia età, forse con i capelli diversi, con figli o senza figli, chissà. Esco, vado alla pescheria, mi ricordo che un giorno d’agosto del 1978 ci siamo baciati al giardino zoologico. Mi fermo a guardare il grosso fegato di un merluzzo, piace ai miei figli, decido di comprarlo.

Ci eravamo conosciuti al lido Longobardo, io ero biondissimo, con le spalle scolpite, a quei tempi giocavo a pallanuoto. Mi colpirono i suoi bracciali e i suoi grandi orecchini, i suoi occhi di ovino. Poi un giorno ripartì, e qualche mese dopo venni a sapere della malattia di suo padre, il siciliano con i baffetti alla Clark Gable.

Mi dirigo ai telefoni di stato, sfoglio l’elenco telefonico di Roma, non esiste più uno Scalise che abita al viale Trastevere. Ritorno a casa ed immergo il merluzzo nell’acqua bollente, è tardi, è ora di prendere i bambini che escono da scuola.

Un giorno mi rivelò di essere fascista, e che al liceo era stata spesso inseguita ed insultata dai rossi. Il fatto mi colpì molto, anche perchè si vestiva come una femminista anti abortista, con i grandi orecchini e le camicie larghe.

In vent’anni si può anche morire, impazzire o finire in gattabuia, o soffrire per amore, per malattia, o male di vivere, e ti diventano i capelli bianchi. Forse la riccia non è più riccia e la mia memoria comincia a compiere giochi acrobatici indietro nel tempo. I bambini sono eccitati, gli ho appena detto che ho pescato un grosso merluzzo.

ILLUSIONI

FINE DELL’ATTESA

Hanno deciso di pubblicarmi i racconti, dovrò andare a Milano per firmare un contratto che mi permetterà di vivere un anno. Telefono agli amici, con l’aria distaccata annuncio la buona novella, stento a credere che il mio nome sarà in tutte le librerie italiane. Sull’aereo indosso il cappotto di cashmere, quello delle grandi occasioni, in tasca ho 200.000, un libro di Maupassant e una pipa.

Uscirono le recensioni sui giornali, il “Corriere della Sera” parlò di rivelazione ed accostò il suo nome a quello di Verga e Brancati, “Tuttolibri” scomodò Carver pur se con cadenze celiniane, “L’Avvenire” lo definì lucido e disperato, mentre “La Sicilia” gli dedicò una pagina con un titolo altisonante: “Finalmente ecco l’interprete della Sicilia moderna”.

Alla firma del contratto è presente anche lo scrittore che mi ha scoperto, il lombardo con la faccia rassicurante le cui mani sembrano quelle di un pugile, è lui che ha scritto la prefazione del libro. Tocco la copertina, mi piace tutto, il disegno, la grafica, il prezzo, le pagine. La depressione e l’attesa sono svanite, immagino già le colline di Nizza, poi quelle umbre, quelle toscane, le coste orientali della mia isola, le prossime estati, gli inverni, i viaggi, il mare, i monti… i miei figli, mia moglie.

Ricevette telefonate importanti, anche quella del vecchio filosofo che era stato amico suo. Alcuni giovani scrittori lo invitarono ad un seminario sulla narrativa a Firenze, era confuso, felice e ricordò il giorno che si era laureato, allora aveva accontentato la madre che sarebbe morta tre anni dopo. Strinse il padre, lo baciò sulla guancia e gli chiese di resistere ancora, lo ringraziò per aver avuto fiducia in lui. I suoi colleghi di lavoro si complimentarono, anche il giovane direttore che lo aveva sempre deriso e umiliato. Ma ormai a lui non gliene fregava più niente.

Qualche critico mi aspetta alla seconda prova, ma il mio pensiero fisso è quello di ritornare a lavorare con il vecchio computer, lo stesso che è stato testimone delle cento pause, ire e fallimenti, conserva e salva le mie frustrazioni, che adesso vorrebbero leggere tutti.

FINE DELL’AMORE

Provo a chiamarla ancora una volta al telefono ma non riesco a trovarla, alla terza volta il padre è sgarbato e riattacca. Dove sbaglio? Cosa è successo? Mi rendo conto che tutto vacilla, che basta un niente a far finire un amore, anche se dura da tre anni.

Eppure lei è resistente a tutte le insidie che può riservarle la mia insicurezza e il mio egocentrismo, ma mi illudo e non è altro che la fine.

Due giorni prima che lei partisse gli aveva confessato di essere attratta da un suo amico, poi erano usciti e ogni volta che incontravano dei ragazzi lei sorrideva, scatenando la sua gelosia. Erano rientrati e lui provò a sbottonarle la camicetta, lei oppose resistenza, era la prima volta che concedeva il suo corpo ormai stremata dai tentativi insistenti. Si erano amati sul divano e lei pianse mentre teneva le palpebre strette.

Il giorno seguente riprovo a telefonare, non risponde nessuno, poi nel pomeriggio la sua voce rompe il doloroso silenzio, un basta e niente più. Le attenzioni di mia madre mi innervosiscono, non capisce che è un momento strano per me, una tappa che segnerà per sempre la mia vita. Viene la notte insonne, il futuro dei miei giorni non è per niente roseo, capisco che me la sono cercata.

Non la accompagnò alla stazione, era rimasto in camera sua a rileggere le righe che lei gli aveva lasciato sul comodino. Aveva acceso la radio, una canzone degli “Stadio” gli ricordò il volto triste di una ragazza, sola in uno scompartimento di un treno. Spense la radio.

Oggi sono sbronzo, ho bevuto due litri di Kronembourg, mi trovo al monastero dei Benedettini assieme ad un mio amico che mi tormenta con domande banali su come finisce un amore. La festa dell’Unità sta per finire, i CCCP si esibiranno stasera, poi mi ricordo che ho solo vent’anni e bevo un’altra birra.

FINE DELLA SOLITUDINE

Giacomo Ferrigno si trovava all’Isola d’Elba, all’ultimo istante aveva deciso di partire da solo. Le precedenti vacanze in compagnia degli amici erano state deludenti, e per questo motivo volle provare la vera libertà, agire senza chiedere il consenso agli altri. Dopo alcuni giorni si annoiò e prese un treno per Nizza, la città della costa che qualche anno prima l’aveva affascinato.

Eccomi a Nice, città splendida ed attraente, viavai del turismo internazionale e del mio viavai solitario. Alloggio al solito albergo, l’hotel Interlaken che si trova di fronte alla stazione, il vecchio portiere non mi riconosce e si limita a dire “Ah l’italienne”, la camera è la numero 12.

Giacomo andò alla “Sporting beach”, sistemò la stuoia sulla spiaggia e si mise in costume. Gli fece piacere assaporare ancora una volta il libertinaggio delle donne francesi, la loro sfrontata arte seduttiva, ne notò una, giovanissima, che gli fece perdere letteralmente la testa. La ragazza era bionda, indossava un tanga nero piccolissimo e la sua vita era cinta con una collanina d’oro. Se ne accorse quando lei andò alle docce e continuò a guardarla, aspettando il suo turno. Si desideravano.

E’ di Parigi, ha diciotto anni, è in viaggio di nozze ma il marito oggi non c’è perchè improvvisamente ha dovuto raggiungere Cannes per ritirare un pacco che una zia gli ha lasciato. Si chiama Silvie e vuole scoparmi, ed io non perdo tempo ad infilarle la lingua nella sua bocca, a questa giovane sposa dalla fantasia erotica spiccata. Mi chiede di spalmarle la crema abbronzante sulle natiche, ed il mio uccello sguscia dal costume come un serpente e va ad adagiarsi sui sassi caldi.

Si ritrovarono all’hotel Interlaken, unti di creme e sudori provarono quattro cinque posizioni del Kamasutra meno tradizionale. Silvie gemeva, e lo sorprese l’irrefrenabile voglia di tradire il maritino. Ma ad un certo punto Giacomo ebbe paura, non era nei suoi piani sconvolgere il viaggio di nozze di una coppia, e poi improvvisamente non era più solo, cominciò a meditare la fuga…

FINE DELLA POVERTA’

Vivere come un mendicante o compiere una rapina in banca? Le due alternative da ultima spiaggia lo allettavano in egual maniera, per alcuni giorni se ne stette ad elemosinare nei pressi del Duomo, poi, stanco, pensò ad un piano veloce per espugnare l’agenzia 1 del Banco di Sicilia.

Mi sono procurato una grande pistola giocattolo, la nascondo nella tasca interna del giubbotto e parto con la moto, la posteggio a 100 metri dall’isolato, cinque minuti all’una ed eccomi di fronte alla guardia giurata che svogliatamente mi apre la porta. Sono alla cassa 1, mostro la rudimentale arma al cassiere e gli chiedo cinquanta milioni, nessuno si accorge di niente. Quando intasco le banconote di corsa affronto l’agente, che sta di spalle, gli pianto la canna sulla tempia e gli dico di aprire. In un attimo sono fuori, 100 metri in 10 netti e già sfreccio sotto gli archi della marina, getto il berretto ed abbandono la moto accanto alla fontana. Alle 13.25 sono al binario 1, appena in tempo per prendere il Siracusa-Milano.

Non era per nulla teso, ma sudava freddo. Ripensò a quell’uomo elegante che gli aveva dato 10.000, quel giorno che si era seduto sugli scalini della Cattedrale e ancora non pensava di fare il rapinatore. Un ragazzo gli aveva chiesto una sigaretta, e lui, senza guardarlo in faccia, gli aveva dato tutto il pacchetto. Lo scompartimento affrontò il buio della galleria.

50.000.000 a Milano per spararmeli come si deve. Dalla suite dell’albergo telefono a un negozio Versace, mi portano un vestito a doppio petto grigio topo e un paio di mocassini bordeaux. Alle 11.00 di sera sono in discoteca, il barman mi passa un Jack Daniel, osservo i movimenti dei ragazzi, poi mi annoio e chiamo un taxi.

A Piazza S.Babila proseguì a piedi, si fermò ad osservare la vetrina di un negozio di cravatte, si sentì chiamare alle spalle… era un barbone che stendeva la mano, si avvicinò mentre gli porse le 100.000 . Nella stanza ripensò all’uomo, si addormentò e, sognandosi, si rivide povero.

IL SOGNO INFRANTO

18 agosto 1999. L’uomo ed il figlio arrivarono alla scogliera, il mare era scuro e gonfio. Si sistemarono all’ultima estremità di pietra lavica, accanto allo stabilimento balneare, in quel momento con poca gente per le avverse condizioni atmosferiche. Il pescatore, per nulla spaventato, montò la sua canna a tre pezzi, mentre il bambino lo osservava preoccupato.

Oggi papà mi ha detto che pescheremo pesci grossi, perchè quando c’è il cielo grigio vengono fino alla riva per cercare mangiare. Abbiamo portato i vermi e il gambero, e anche qualche cozza, gli ami sono di tre tipi, con le lenze di riserva. Mi tiene la mano mentre scendiamo le rocce, al lido ci sono persone e qualche bella ragazza. Il mare è troppo mosso ma papà mi dice di stare tranquillo.

L’uomo infilò il verme nell’amo, poi posizionò la canna all’indietro e lanciò la lenza lontano, le onde sembravano cani rabbiosi. Il ragazzino seguiva con lo sguardo la traiettoria, impaziente di vedere la punta della canna inarcarsi e vibrare, e infatti al primo tentativo venne fuori un’occhiata. Michele aveva gli occhi eccitati mentre il padre adagiava il pesce nel cesto.

I cavalloni sbattono forte sulla scogliera e fanno tanta schiuma, ho paura ma papà mi dice che non ci sono problemi, qualche altro pesce e ce ne torniamo a casa. Il cielo è diventato nero e spero che piove.

Mezz’ora dopo il loro arrivo l’acqua cominciò ad incresparsi, l’uomo diventò nervoso perchè ne aveva pescato solo uno, mentre tentava di lanciare la lenza il piede destro scivolò su una patina di muschio viscido e così fu inghiottito dal mare. Non tentò di reagire perchè non sapeva nuotare, annaspava come una sogliola sulla terraferma, e la bocca ingoiò schiuma salata. Quattro avventori del lido si accorsero del fatto e, abbandonati i tavoli di ripetitivi giochi di carte, si tuffarono. Ma ormai era troppo tardi. Quando lo issarono esanime sulla piattaforma il figlio cercava di farsi spazio tra la folla di curiosi, che osservava la bocca schiumosa del cadavere. Venne allontanato bruscamente da uno dei soccorritori, che non aveva riconosciuto in lui il figlio del pescatore. Poi venne la polizia.

20 agosto 1999. Oggi, a casa mia, sono venuti quelli che volevano salvare mio papà. La mamma prima li ha trattati male, poi li ha fatti entrare e gli ha fatto il caffè. Non parlavano, poi uno ha messo sul tavolo un sacco di soldi, allora io li ho presi e sono andato di l… a contarli, erano tredici carte da cento e ho pensato che non ne avevo mai visti così tanti.

CERTEZZE

IL VECCHIO

All’alba Sangiorgi rivide foto ingiallite di un teatro, il suo teatro, una volta centro di attrazione per i catanesi mondani. La figura di Josephine Baker, sinuosa e slanciata… la venere nera, il volto plastico e sorridente del principe De Curtis mentre gli stringe la mano, lui mentre si accinge a salire su un velivolo degli anni venti. Erano passati ottanta anni, ma il ricordo di quei momenti era sempre vivo nella memoria.

Faccio alcuni esercizi ginnici sdraiato sul letto, mi viene da sorridere se penso che ho 102 anni, poi faccio colazione e dopo mi siedo accanto alla scrivania per completare il cruciverba. Aspetto il mio giovane amico che non vedo da dieci giorni, ma sono sicuro che appena evocato me lo vedrò sbucare da un momento all’altro. Infatti eccolo mentre dalla finestra mi saluta con il braccio alzato, è giornalista e scrittore e una volta ha ospitato un mio articolo sulle pagine del suo giornale. Si siede di fronte a me che sto seduto sulla sedia a dondolo, spero che rimarrà più del solito, così potrò raccontargli qualche storia del mio passato che non conosce. Invece dopo dieci minuti si congeda da me perchè, dice, deve fare la spesa alla pescheria.

Ritornò al suo cruciverba, si annoiò presto e riprese a sfogliare l’album delle fotografie, un giovanissimo Rascel, un languido Nino Taranto, un’inedita Marta Abba… la maschera di Musco, quella di Giovanni Grasso, tutta la famiglia ritratta dentro una sala degli esercizi. Poi arrivò il fidato Carmelo con la spesa, pomodori di Pachino e merluzzo, si sedette qualche istante e poi all’improvviso scattò in piedi ed esclamò: “Principali, u giunnali”!

Sono un maestro nell’ingannare il tempo, forse la longevità ti aiuta solo a questo, non è vero che si è più saggi, ho ancora tanta voglia di scoprire cose, come quando negli anni dieci imbracciai la prima cinepresa, poi la prima guerra, la seconda, la morte di mia moglie, la fine del teatro, ed io sono ancora qua ad aspettare una sconosciuta che da un momento all’altro mi chiuderà gli occhi per sempre.

PESCHERIA

Alle 9.00 l’anziano uomo passò accanto alla fontana dell’Amenano e scese le scale. Si ritrovò tra secchi e cassette di legno pieni di pesce, i pescivendoli cominciarono a gridare, a gesticolare e ad indicare ai passanti la bontà di quello loro. Era da due anni che non veniva alla pescheria, l’ultima volta era stato con la moglie, prima che lei venisse colpita irrimediabilmente da un ictus.

Arrivano i pescatori, velocemente trascinano i secchi enormi colmi d’acqua, scaricano polpi, calamari, triglie, spigole, gamberi. Le donne mercanteggiano senza successo, c’è uno che vende perfino lo squalo palombo e carpe…nella strada che domina piazza Pardo l’odore di formaggio e di carni si mescola con quello di sotto, poche persone bevono alla fontana.

L’uomo si confuse, fu strattonato da un venditore di anguille a cui aveva ostruito il passaggio, poi si spostò nella galleria, dove il pesce è più caro e più bello, in realtà è lo stesso. Si fermò a guardare un enorme dentice di circa cinque chili, per un attimo si passò la mano sulla tasca posteriore, quella del portafogli, lasciò la galleria e si diresse alle scale opposte. Guardò la testa di un pescespada, poi quelle di alcuni tonni, ritornò indietro e si incantò alla vista di una rana pescatrice. Si ricordò di averla mangiata cucinata in brodo e gli era piaciuta moltissimo, decise di comprarla, andò a cercare nuovamente i soldi ma non c’era più niente. Pallido si voltò come in una girandola, i colori forti del mercato di colpo lo disturbarono, tentò di gridare qualcosa ma venne ancora spinto da pescatori ritardatari. Improvvisamente vide tutto bianco e si ritrovò a terra, sul fango di mare.

E’ mezzogiorno, scendono i prezzi, gli uomini del pesce sbraitano ancor di più, adesso le donne sono più spavalde ed ottengono quello che vogliono. I vigili urbani perlustrano il piazzale, uno di loro compra degli sgombri, più in là un capannello di gente mentre dal Duomo si sente la sirena di un’ambulanza in arrivo.

RELIGIONI

18 dicembre 1999. Mi chiamo Neil O’Brien, da dieci anni sono rinchiuso nel braccio della morte del carcere di massima sicurezza del Texas, ma adesso è finita perchè tra due giorni uscirò da questo posto per sempre, un carro funebre varcherà la soglia del penitenziario e mi condurrà al cimitero, a sud ovest della città.

4 ottobre 1989. La sera della festa di S. Francis O’ Brien arrivò nella zona residenziale, era strafatto di coca e si guardò attorno prima di forzare l’ingresso della villetta a due piani. Non c’era nessuno, ne era certo, conosceva le abitudini di quel posto come i buchi nella sua pelle. Entrò nel grande salone, rovistò i cassettoni dell’armadio, si soffermò un attimo a guardare la foto di Lisa il giorno della laurea, poi quella di Jim e Lisa il giorno delle nozze. Scalciò la biancheria intima e si mise in tasca il biglietto da cento dollari. Salì le scale a chiocciola.

Credo in Dio, non vi sembrerò sincero perchè dicono tutti così prima di morire, la lettura del testamento di Giovanni mi ha svuotato di tutte le nefandezze del corpo. Poi ho letto i fioretti di San Francesco, e da allora ammiro i poveri, li rispetto per la loro condizione, per il fatto che non andranno mai a rapinare una banca, se ne staranno tutto il tempo, buoni buoni, ad elemosinare qualche cent sotto i grattacieli dei centri urbani. Mi sento povero e pentito e non gliene frega niente a nessuno. Forse neanche a Dio.

La porta della stanza dei ragazzi era chiusa, la aprì furtivamente e cominciò a vedere la sagoma della libreria, la spalancò completamente e fu sorpreso nel vederli dormire nei letti, Paul spalancò gli occhi e lo vide, O’ Brien, accecato dal panico e dalla polvere bianca, afferrò il machete australiano di Ken e saettò colpi violenti sui volti dei fratelli. Il sangue schizzato e le loro grida di dolore sembravano lampi e tuoni in una notte di tempesta…

20 dicembre 1999. Jim e Lisa mi guardano spiritati, mentre il boia mi lega polpacci ed avambracci. Penso a Francesco D’Assisi e a tutti i poveri del mondo che non sanno niente di me e di quei ragazzi che ho massacrato, la sera del 4 ottobre e le partite di baseball nel college, gli occhi mi roteano all’insù. Sorella Morte ha trionf…

ALLA FIERA

L’anziano filosofo imboccò via Pacini, la strada che ricorda via Dei Condotti, con negozi di articoli per scarpe e di strumenti musicali. Quando giunse in prossimità del mercato le bancarelle già invadevano la strada e nella piazza la chiesa barocca sovrastava il brusio della fiera.

I senegalesi vendono cassette audio, si fermano in mezzo alle arterie e controllano di continuo se per caso irrompono i vigili urbani. I venditori di scarpe gridano suoni tenorili arabeggianti che sembrano congiungersi con quelli della lontana pescheria. L’ufficio postale di via Teocrito sembra un avamposto surreale in mezzo alla casbah cittadina. Brulica l’anima della città.

L’uomo, attraverso i suoi occhiali scuri, sbirciava tra le bancarelle dei vestiti usati, poi, squillò il telefonino e cominciò a parlare di un’opera musicale rappresentata a Fano. L’interlocutore deve avergli fatto complimenti dal modo con cui lui annuiva, poi staccò e ritornò a guardare le robe vecchie.

I poliziotti municipali arrivano, i neri occultano i nastri sotto l’impalcatura di un posto di giocattoli, si dileguano verso Piazza della Repubblica e si fermano accanto alla statua di Colapesce. In Piazza del Carmelo i ragazzi propongono offerte “promozionali” con lattuga romana, cetrioli e rucola…il macellaio di carne equina impreca contro qualcuno, con la moglie e più in là, al chiosco delle bibite, due uomini discutono animosamente.

Giunse vicino ad un carretto pieno di borse e improvvisamente irruppe la canzone, si soffermò a battere il tempo con le dita nel punto in cui il cantante dice: “…Non hai fiori bianchi per me? Più veloci di aquile i miei sogni attraversano il mare”. Si immerse nella folla della strada principale e la sua testa canuta si confuse assieme ad altre.

Il giovane venditore di borse discute di pittura con un amico, i senegalesi sono di nuovo lì, a loro se ne è aggiunto un altro con gli ultimi films della stagione. Le ragazze, come farfalle impazzite, si muovono da un posto all’altro, senza raggiungere mai l’appagamento.

L’uomo si alzò il bavero del cappotto nero e prese la direzione di casa. Mentre percorreva via Verdi pensò che nessuno l’aveva riconosciuto, anche se quella mattina una sua grande foto invadeva la terza pagina de “La Sicilia”.

POLITICA

Sono un ex rivoluzionario, uno di quelli che ha combattuto in Bolivia e in Colombia, quando avevo vent’anni e pensavo di essere immortale. Credevo nel comunismo, nella libertà dei popoli, nell’uguaglianza degli esseri umani e al bene collettivo e comune. Adesso ho sessantacinque anni e non credo più a nulla, questo regime che si ostina a sopravvivere è patetico.

Quando entrammo a La Paz l’entusiasmo era alle stelle. Trascorremmo il pomeriggio in una locanda della capitale, le donne ci stavano attorno, ad ascoltare i nostri racconti di sopravvissuti. Bevemmo un vino rosso liquoroso e quando giunse la notte ballammo e cantammo. Il giorno dopo il capo ci convocò nella sua stanza e ci disse che eravamo ad una svolta importante, mentre in quegli anni i carri armati sovietici entravano a Budapest e a Praga noi potevamo rappresentare le idee del comunismo reale, sarebbe stata la gente dell’America latina ad invocarci, a chiedere il nostro aiuto per realizzare il grande sogno. Purtroppo non era così.

Sono cristiano, la fede ha sostituito il mio amore per il comunismo, ideologia ipocrita per uomini che non esistono e non esisteranno mai. A volte penso che le teorie della destra, nel corso degli anni, siano state più realistiche e più consone alla natura egoistica dell’uomo, la gerarchia, la legalità e l’ordine controllato, l’esaltazione dell’individualità e della propria nazione… qualcuno ha anche esagerato.

Il giorno del ringraziamento cademmo in un’imboscata, il nostro sangue si mischiò alle acque del fiume della foresta, il capo venne colpito in petto e spirò con gli occhi spalancati, io mi salvai nascondendomi tra la fitta boscaglia. I controrivoluzionari erano numerosi e per la prima volta ebbi la sensazione di essermi macchiato di tradimento, non provai più niente e mi sentii vulnerabile.

I bar dell’Avana, la gigantografia del Che, i piccoli lustrascarpe, mi ruotano in testa come in un vortice. Ed io mi diverto ancora ad osservare i pescatori magri che rientrano all’alba. Il mare di Cuba è pieno di Marlin.

VIA ETNEA

Sono le 12.00, via Etnea alta è intasata di automobili che scaricano con rabbia i loro gas. Da qualche minuto ha smesso di piovere e dai bordi della strada si formano dei piccoli corsi d’acqua che discendono velocemente giù. Un pallido sole ottobrino stenta a farsi largo tra le nuvole nere.

Era scappato dalla comunità per minori di S.Giovanni Galermo, scese dall’autobus e decise di proseguire a piedi. Si soffermò a guardare l’ospizio per ciechi, poi affrettò il passo come colui che ha un appuntamento, invece non aveva altro che voglia di scoprire la frenesia della città. Bevve un mandarino al limone e per un attimo si guardò le scarpe da tennis bucate ed inzuppate d’acqua.

Alcuni ragazzi con gli zaini sostano davanti alla villa, altri si intrufolano nel negozio Ricordi ad ingannare il tempo, seduto nelle scale della posta centrale un folle con una pesante radio sulla spalla che fischietta all’indirizzo delle donne che transitano in fretta.

Aveva i capelli bagnati e unti di grasso, i piedi puzzolenti e l’aria di colui che l’ha appena fatta grossa. Ma lui non era consapevole di questo e quando oltrepassò il viale Regina Margherita pensò che mancavano pochi metri all’ingresso della Rinascente. Ogni volta che entrava lì si sentiva come in un parco giochi.

Donne grasse vengono dal mercato, con buste pesanti di plastica, si riposano un pò e poi proseguono per le fermate. A piazza Stesicoro alcune basole laviche sono saltate dalla strada, sembrano grandi cubetti di ghiaccio anneriti. Due controllori dell’AMT scendono dal 720 assieme ad un ragazzo spettinato e con le toppe sui jeans.

Entrò alla Rinascente, con sguardo curioso cominciò a scrutare le commesse del reparto profumi, ad una di loro chiese di provare un’essenza che poi si passò, come fanno gli anziani, dietro le orecchie. Salì al reparto jeanseria e si incantò alla vista di alcune ragazze che, ridendo, si guardavano allo specchio. Quando lo videro, con le scarpe inzuppate, cominciarono a deriderlo e il suo volto improvvisamente divenne collerico.

Riprende a piovere, un anziano impreca contro il sindaco e i vigili urbani che, a suo parere, sono sempre latitanti. Sale sull’autobus continuando a gridare. Dall’altra parte della strada una volante della Polizia davanti al grande magazzino, i due agenti si avvicinano strattonando per la camicia il ragazzo dallo sguardo inebetito.

FURTO ALLA RINASCENTE

Il loro amore era finito, non le rimaneva che lasciare questa città crudele e ritornarsene in Francia. Sbattè la porta con violenza e tutta la sua rabbia si sprigionò nel pianerottolo del settimo piano. Con il suo piccolo zaino sulle spalle oltrepassò il palazzetto dello sport ed attese, piangendo, il 32.

Il sole è appena uscito, fiumi di fango si assottigliano, scorrono oltre Porta Uzeda e si scaricano dinanzi a Villa Pacini. I pescivendoli riprendono ad urlare appena il sole si apre un varco definitivo tra le nuvole.

Scese al Duomo, con gli occhi rivolti verso il marciapiede ripensava alle parole di lui, che l’aveva scaricata come un pacco postale. Non si curava dei passanti, nè dei commenti volgari di militari in libera uscita. Per un attimo immaginò il lungo viaggio che l’attendeva, in treno fino a Cannes, poi rivolse l’attenzione alla statua del musicista, le vennero in mente le romanze famose e odiò quei momenti di apparente felicità.

Ragazzi si rincorrono nella via, scansano vecchi pensionati, si intrufolano nel negozio Ricordi per ingannare il tempo. Un’ambulanza sfreccia con la sua sirena assordante, schizza fango verso donne cariche di spesa che imprecano contro il Sindaco e i vigili urbani che non intervengono.

Arrivò alle poste, un matto seduto sulle scale la fece sobbalzare con il suo fischio squillante. Ritornò indietro, guardando sempre a terra entrò alla Rinascente…guardò i profumi, si avvicinò alle confezioni di Cacharel e Armani e con scaltrezza se li infilò in borsetta. Erano gli odori del suo amore svanito, quando giunse all’uscita sobbalzò alla vista della volante, ma la polizia non era per lei…i due agenti erano dietro che strattonavano per la camicia un ragazzo dallo sguardo sofferto, il quale continuava a ripetere: “Non ci voglio tornare, no, non ci tonnu!”

MORALE

La morale non appartiene all’adolescenza. Tutto quello che ci è stato concesso in gioventù l’abbiamo accolto con trasgressione, e allora abbiamo esagerato, con il sesso, l’alcool, la droga, la blasfemia, i furti, la musica proibita, i libri… proibiti. E non ci siamo pentiti di nulla, perchè alla fine siamo diventati professionisti.

28 dicembre 1980. Siamo qui da un’ora, nello stesso scantinato, a provare lo stesso pezzo che non vuole uscire come Dio comanda. L’amico di Nello, la checca profumata, mi osserva le spalle sudate mentre rullo sui tamburi per trovare il ritmo giusto, ho bevuto tre birre ed i miei movimenti sono sincopati, sono sicuro che il finale verrà ancora una volta male. La “Magica” mi sorride languida, adesso siamo soli, mi accarezza la schiena umida ed io lo lascio fare, non reagisco neanche quando mi sbottona i pantaloni e comincia a giocare con il mio membro. Penso ad una ragazza che mi piace e tutto finisce in fretta.

Se abbiamo rubato 100.000 dalla borsa di una ninfomane non ci siamo sentiti in colpa, perchè, come i rivoluzionari, questo faceva parte di un grande progetto, dimostrare a noi stessi che potevamo essere dei grandi figli di puttana. E non abbiamo avuto pietà neanche quando abbiamo sottratto alla ragazza che ci amava la sua collana d’oro.

12 luglio 1981. Siamo in un appartamento di Giardini ad ascoltare un disco stupendo dei Roxi Music. Nello rolla un cannone di erba e ce lo finiamo avidamente mentre ci palpiamo le palle, la voce di Brian Ferry si rallenta fino al punto di diventare languida ed eccitante. Un altro spino e rimaniamo nudi a ridere come matti, la birra scola per il petto fino ad arrivare al pube. Quando parte “Avalon” ci stringiamo e balliamo un lento, e sì, questa sera stiamo proprio esagerando.

Non siamo poi tanto cambiati adesso che abbiamo quarant’anni. Se una sgualdrinella ci fa intravedere il seno il nostro istinto primordiale potrebbe nuovamente scatenarsi. E immagineremo di scorazzare su un’auto scoperta, con la musica degli Zeppelin, a sorpassare camion e moto, mentre tocchiamo le tette della ninfetta.

FIGLI

Osservo mio figlio mentre tira di fioretto, il maestro russo gli impartisce suggerimenti sulle pose da adottare prima di affrontare l’avversario. Ha otto anni, i suoi movimenti sono plastici e leggeri, ha il corpo magro e le mani affusolate e questo mi fa pensare che diventerà alto.

Quando vidi la forma del suo cuore, da un monitor che mostrava la sua ecografia, pensai a quello mio e al fatto che otto anni prima ero stato l’artefice del primo battito, il cuore di un bambino che riproduceva, come in cassa di risonanza, quello del padre.

Quando la mattina li accompagno a scuola per due ore buone la mia mente è con loro, nella classe di scuola materna del piccolo, che impiegherà un po’ di tempo prima di adattarsi con gli altri, e alla seconda classe del più grande, mentre la maestra gli controlla i compiti di matematica, dove ci sono ancora i segni del mio supporto morale e affettivo.

Sono un padre premuroso e protettivo, e so che un giorno dovrò affrontare le loro esigenze da adulti, immaginando già gli scontri generazionali ed inevitabili. Ma penso di essere all’altezza, come lo fu mio padre con me, e mio nonno con lui.

A volte penso di svincolarmi dallo loro presenza responsabilizzante, cerco di capire come potrebbe essere la mia vita senza di loro, ma è come se cercassi di compiere una violenza nei miei confronti. Per questo motivo molti uomini fuggono la tentazione di tradire la moglie, in realtà tradirebbero i figli e se stessi.

Oggi è Domenica. Luca e Simone sono sul nostro letto, tutt’e due cercano di stuzzicarmi pressando i loro corpi contro il mio. Alle nove del mattino penso già che li condurrò alla villa, vorranno vedere i cigni, mi chiederanno di comprargli il gelato, poi andremo al parco giochi, e quando dirò a loro che è tardi, è ora di pranzo e dobbiamo tornare a casa, allora Luca mi strattonerà per il cappotto e si opporrà. Adoro la loro prevedibilità e questo mi rende felice.

LETTERATURE

Una volta non riuscivo a distinguere un vero autore da un mestierante qualsiasi. Poi, dal momento in cui io stesso ho avuto questa presunzione, anche in questo istante, che scrivendo cerco di calarmi nel critico letterario, ho acquisito gli strumenti necessari per operare questa fondamentale distinzione.

Completo l’ultima pagina di “Un Amore” e mi rendo conto che questo è il miglior Buzzati che io abbia mai conosciuto. In questo romanzo c’è un’autenticità, uno sforzo di restituire emozioni, che io non ho trovato in altre opere come “Il Deserto dei Tartari” o il racconto “Sette Piani”, che rimangono pur sempre straordinarie per la tensione e la costruzione narrativa. Nel frattempo comincio a leggere il primo libro di Pier Vittorio Tondelli, “Altri Libertini”, e ho la sensazione che lo scrittore ambisce a raccontarsi sinceramente, evitando di rimanere intrappolato dalle pastoie della morale e del buon senso.

E’ stato Tondelli ad illuminarmi su alcune teorie della scrittura: riprendendo Thomas De Quincey ha affermato che esiste letteratura di quantità e letteratura di qualità, quest’ultima l’unica che rimarrà nel tempo e riesce ad emozionarci e a commuoverci, dunque letteratura di potenza. Fante, per esempio, è un autore emotivo.

Il finale del “Viaggio a termine della notte” è stupendo, come quello di “Uno, nessuno, centomila”. La scrittura di Cèline mi fa star male, si è impressa nella mia mente e difficilmente me la scrollerò di dosso. A volte, mi cimento cercando di imitare il suo stile, e mi rendo conto che è stato superbamente in grado di restituirci l’emozione del linguaggio parlato.

Quando ho cominciato a scrivere credevo ancora nella cosiddetta ispirazione, che poi sarebbe quella “cosa” che ti fa vivere momenti uguali agli altri in maniera unica. Cioè non cambia il fatto ma la sensazione che lo accompagna, questo vuol dire che i racconti migliori che abbiamo scritto non sono necessariamente quelli dettati dalla frenesia o dall’impeto, che ti giovano soltanto come una sorta di imput, un interruttore che si accende.

L’ideale sarebbe quello di essere dotati di una memoria letteraria, che riuscisse a purgare i ricordi pesanti da quelli insignificanti, così i traumi e gli episodi rimossi della nostra vita ci apparirebbero d’improvviso nuovi e carichi di vitalità, insomma degni di essere raccontati.

Sto per finire questa raccolta dal titolo forse presuntuoso e retorico, “1999”. Ma questo non importa, so solo che devo finirla, e alla fine non puoi giocare nè fingere, devi solo scrivere.

FINE DEL MILLENNIO

NATALE

24 dicembre 1999. Scendo davanti al Colosseo, ho un permesso di trentasei ore ma decido lo stesso di prendere il treno delle undici per Port Bou. Trascorrere il Natale a Nizza mi affascina e soprattutto dimenticherò, anche se per poco, la caserma. Alla stazione perfino i barboni e i sofferenti sembrano in festa, un grande albero addobbato domina lo scenario di viaggiatori frettolosi, che si accingono a raggiungere le famiglie.

Il treno è strapieno. Militari ritardatari, studenti svogliati, studentesse impellicciate, arabi clandestini, americani con zaini, giapponesi con telecamere, zingari con bambini, ladri in attesa… ed io con un taglio di capelli stile militare, seduto a sfogliare un giornale e pensare che alle 20.00 sarò a Nice tra le braccia di Fabienne.

Guardo dal finestrino il mare della liguria, con il tramonto diventa struggente, con le scogliere a picco che ricevono le onde bianche. Savona, Alassio, e poi Imperia. Al confine due carabinieri mi squadrano dalla testa ai piedi, ho negato di essere un soldato, allora ritirano il mio documento per un controllo. Mi immagino già a Forte Boccea quando li vedo tornare, niente di tutto ciò, il più giovane mi dice “buon Natale Paisà”, e finalmente il treno varca la Francia.

Puntuale, alle 20.00, il treno arriva a Nizza. Fabienne non è ancora arrivata, decido di farle uno scherzo, mi nascondo dietro un pilastro della sala d’attesa, ad osservarla mentre mi cerca. La vedo arrivare ansiosa, è bellissima, immagino il sapore della sua bocca, si dirige al primo binario, non c’è più nessuno. Quando il suo volto comincia a tirarsi esco dal mio nascondiglio e le vengo incontro. Che sapore la sua bocca!

Il taxista prende il mio bagaglio, folate di vento mi giungono violente sulle orecchie, ci sediamo sul sedile posteriore, la sua mano è saldata alla mia, i suoi capelli profumano di pesca, li accarezzo, morbidi e biondi. Al primo semaforo i miei occhi incrociano un’insegna luminosa, con la scritta “Noel a Nice”. La bacio ancora una volta e mi conforto odorando il profumo del suo soffice maglione bianco.

SANTO STEFANO

Alla stazione la solita folla di gente che ritorna in caserma, che riparte, che si incazza, che soffre. L’albero è sempre lì. Mi dirigo alla fermata dei pullman, quello per l’Aquila partirà tra un quarto d’ora, accendo una sigaretta e ripenso alla sua bocca umida al sapor di caramella. Mi siedo nell’ultima fila di posti, mentre la filodiffusione trasmette l’ultimo singolo dei Prodigy. Suoni di dialetti del sud mi giungono crudeli e mi ricordano che stasera monterò di guardia, alla solita altana, circondata dal ghiaccio.

Ritrovo la caserma cosparsa di neve, il posto di guardia, la mensa, l’ingresso della fureria. Alcuni fanti corrono sbuffando vapori glaciali, imprecando verso la cattiva sorte e al fatto che dovranno rimanere lì tutto l’inverno. La mia altana è una cella frigorifera, mi bevo un grappino in busta, divoro un panettone in miniatura e chiudo gli occhi. Mi torna in mente la vigilia di Natale, la cena transalpina a base di Camembert e i baffi di sparviero del padre di Fabienne.

Mi riposo per due ore, una puzza di piedi mi giunge dal letto in alto, sono quelli del calabrese. Poi, uno di noi ha la cattiva idea di stappare una bottiglia di spumante, ricordandoci, inconsapevolmente, quanto siamo infelici. La mia mente va ai miei genitori, in un certo senso li ho traditi, è il primo Natale che non trascorro con loro, e questo lo ricorderò per sempre.

Il sogno finì. Era il 26 dicembre 1999, mentre quello che lui aveva sognato era quello del 1982. Dove si trovava? Adesso si ricordava, a casa del padre e da solo, ma perche? E come mai quel sogno? In passato non gli era mai capitato di sognare episodi della sua vita realmente accaduti, questo sembrava programmato dal suo inconscio, così come si sceglie un film o un disco.

27 dicembre 1999. Ho appena compiuto trentanove anni, e adesso verrà questo fottuto 2000, finalmente non ci confonderemo più quando scriveremo le date, 1997 anzichè 1998, sarà solo 2000. La differenza tra quest’anno e gli altri è solo questa.

SAN SILVESTRO

La porta si chiude. Scendo le scale di corsa ed incrocio il vicino che mi augura buon anno con la faccia da ebete. La macchina stenta a partire, poi mi avvio percorrendo le strade illuminate a festa. Qualche botto anticipatore mi fa sussultare e mi ricorda confusamente il motivo della fuga. CHE LEI VADA A FARSI FOTTERE!

Arrivò alla stazione, acquistò il biglietto, destinazione Roma. Nel momento in cui esplose un petardo fallito si intrufolò nel convoglio deserto.

Il treno si muove incerto, come se tentennasse nella partenza. Il volto mi si riga di lacrime, l’ennesimo capodanno da solo, senza di lei e i miei figli. L’ultimo dell’anno, l’ultimo del secolo, me lo ricorda perfino il controllore, “buon 2000”, con aria sprezzante, per colui che osa ricordargli che è di turno mentre tutti si apprestano a festeggiare.

Alla stazione di Acireale non salì nessuno, neanche in quella di Giarre, in quella di Messina, di Villa… di Lamezia, Battipaglia… A BATTIPAGLIA SI CAMBIA, di Salerno, Formia, ROMA TERMINI, tuu, uuu, tuu, uuu…

Eccomi a Roma, sole ma c’è freddo. Mi sono perso i botti, i fuochi d’artificio, le mutande rosse, la scopata beneaugurale…le stronzate del Presidente, quelle di Bassolino e Rutelli… lo show della Caldonazzo, gli auguri di Castagna, Pannella e Costanzo…Cazzo, pensami per un attimo! e i bambini che diranno? Facciamola finita, la faccio finita!

Sbagliò strada. Percorse il tunnel dell’ingresso della metropolitana, si ritrovò in via Giolitti, buttò in strada l’edizione del “Corriere” del 31 dicembre, con la foto del Papa.

Non mi riesce di azzerrare i ricordi, il viaggio surreale, i botti di fine anno e neanche la figura di quella donna da cui scappo.

“LA NUOVA ERA”

1 gennaio 2000, ore 12,30. Sono in un bar, escono tre signore impellicciate, no sono dei trans ancora truccati per la notte. Finisco il mio panino ed vado fuori, seduto sul marciapiede un mendicante, appena mi vede mi dice: “Hai voluto il 2000? e mò lo prenderai nel culo!”.

Ore 14,30. Lascio Piazza di Spagna! Per un fottuto meridionale sarà sempre la stessa. Mi giungono ancora i canti dei giovani cattolici quando entro nel sottopassaggio della metropolitana, andrò a sdraiarmi a Villa Borghese.

Ore 15,30. Cazzo! Quei ragazzini scopano come dannati! Fanno finta di non vedermi, sono eccitato, ho voglia di una donna… vado via e il ragazzo mi urla dietro qualcosa.

Ore 20.00. Ho appena chiesto l’ora alla puttana colombiana che si riveste. Le osservo ancora i seni e i capelli lunghi e neri che le sfiorano le natiche, mi è costata 80.000 questa prestazione frettolosa ed… animalesca.

Ore 21,55, un orologio della stazione Termini. Compro un panino con prosciutto e formaggio, lo addento, è duro, mi dirigo al 22° binario dove è in partenza l’espresso per Siracusa. Scanso un controllore e tre barboni, mi osservo la suola della scarpa destra e salgo sul treno.

Di continente da percorrere non ne rimaneva più. L’estremità della costa fronteggiava quella della Sicilia. Era questa la sensazione sfocata di uno dei passeggeri del vagone fermo alla stazione di Villa S.Giovanni.

2 gennaio 2000, ore 12,30. Apro la porta di casa, percorro il corridoio, sento il profumo di melanzane fritte che proviene dalla cucina, ed evito un orso di pelouche che mi ostacola il passo.

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